lunedì 28 novembre 2011

Talento o impegno?

POSTATO dal prof d’italiano:

Articolo pubblicato su la Repubblica il 21 novembre 2011
Talento: Fuoriclasse per natura 'L' impegno non basta'
Di Angelo Aquario


NEW YORK - Addio sogni di gloria: Mozart si nasce e non si diventa. La notizia rischia di gettare nello sconforto legioni di genitori che spendono tempo (dei figli) e denaro (loro) nella speranza che il cucciolo o la cucciola possano un giorno emulare il genio: ma almeno renderà giustizia a quei poveretti costretti a sfiancarsi in ore e ore di lezioni. Uno scienziato ci aveva addirittura coniato una legge: la "regola delle 10mile ore". K. Anders Ericcson aveva scoperto che in una scuola di provetti violinisti i più bravi alla fine risultavano quelli che avevano collezionato più di 10mile ore di pratica. Quelli che avevano accumulato "solo" 8mila ore figuravano al secondo posto: mentre gli sfaticati fermi a quota 5mila erano condannati alla bravura - per carità ma senza eccellenza. Risultato: la pratica conta più del talento. Anche tu Einstein: basta volerlo. E invece no. Dicono adesso David Z. Hambrick ed Elizabeth J. Meinz che il talento conta: eccome. Un gruppo di superpianisti è stato invitato a leggere senza preparazione una serie di spartiti. La prima parte dell' esperimento sembrava dare ragione alla legge delle 10mila ore: quelli che avevano più pratica alle spalle facevano meglio degli altri. Ma nella seconda parte ecco la sorpresa. Ta i migliori ancora meglio ha fatto chi possedeva maggiore working memory capacity": cioè la capacità di collezionare e processare dati nello stesso tempo. I pianisti con più "memoria attiva" sono infatti capaci di leggere - anticipandole più note e più velocemente: sono insomma più bravi. I due psicologi sanno benissimo che adesso passeranno per dei guastafeste. Nel breve saggio pubblicato dal New York Times riconoscono che la teoria secondo cui il talento è un lento apprendistato è più gradita in una civiltà - come la nostra e soprattutto quella americana - intrisa di meritocrazia. La coppia addita anche un paio di bestseller che hanno contribuito a popolarizzare l' ipotesi. E cioè "Fuoriclasse. Storia naturale del successo" di quel Malcolm Gladwell firma del New Yorker". E poi "The Social Animal" del columnist proprio del New York Times David Brooks. Ma le librerie di mezzo mondo sono invase da anni da manuali che invitano a mettere da parte il vecchio Quoziente d' Intelligenza e concentrarsi nell' esercizio: come "La trappola del talento: da Mozart a Tiger Woods è il duro lavoro a fare di te un genio" in cui Colvin Geoff per la verità sul secondo esempio casca male. Non solo. In "The Talent Code" Daniel Coyle ci spiega che è tutto merito della "mielina" che fa girare i neuroni: e quindi una capacità innata visto che è prodotta da quella "materia bianca" di cui abbondava per esempio un certo Albert Einstein - che pure a scuola odiava la pratica. Mentre i filosofi ci spiegherebbero che la teoria del genio che si conquista è l' ultimo prodotto di quel pensiero che dal libero arbitrio di Agostino passando per la tabula rasa di John Locke arriva all' etica protestante in cui Max Weber individuò nel successo di sé lo spirito del capitalismo. E i biologi replicherebbero invece che la battaglia tra esercizio e talento è solo l'ultimo esempio del conflitto tra natura e cultura: geni si nasce o si diventa? Ecco, è proprio questa la domanda fondamentale: e non ci vuole un genio, né chissà che talento, per capire che purtroppo non ci riguarda.

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