lunedì 30 aprile 2012

Censimento 2011: i primi dati

POSTATO dal prof d’italiano:

Arrivano i primi dati sul censimento effettuato a ottobre dell’anno scorso; ecco cosa scrive la Repubblica il 28 aprile 2012.
Nell'Italia del cemento le famiglie diventano mini e 70mila vivono in baracche

Di Maria Novella De Luca
ROMA - Sessanta milioni. O quasi. Sempre più multietnici, mobili, conviventi e non sposati, riuniti in famiglie piccolissime, in un'Italia ogni giorno più densa di cemento, ma dove oltre settantamila madri, padri e figli hanno come tetto una baracca, una roulotte, un'auto, una tenda, o, può capitare, anche una grotta. Censimento 2011, il quindicesimo dal 1861 ad oggi, ritratto di un'Italia inquieta e mutevole attraverso i primi dati dell'Istat. Un paese con più donne che uomini, dove i bambini, quando nascono, hanno genitori immigrati, e le città oscillano tra il modello "megalopoli", Roma, che divora le sue periferie con oltre due milioni e mezzo di abitanti, e il micro borgo, sette comuni su dieci, dove la popolazione non raggiunge i cinquemila abitanti.
Un'Italia con la demografia che cambia, e così i modi di vivere, dice il presidente dell'Istat Enrico Giovannini, perché «dopo quasi vent'anni di stagnazione la popolazione è cresciuta del 4,3% anche se per effetto esclusivo degli stranieri, e se ci sono comuni che perdono abitanti, altri invece ne guadagnano, ma certamente c'è una forte mobilità».
Giovani e non giovani in cammino, famiglie che si spostano, si insegue il lavoro, si fugge dallo smog, gli italiani "migrano" dal centro alla periferia, dal Sud al Nord, gli immigrati invece mettono radici...
LA POPOLAZIONE
Il 9 ottobre del 2011, giorno a cui si riferiscono tutte le rilevazioni del censimento, la popolazione italiana conta 59.464.644 individui, di cui 28.750.942 uomini e 30.713.702 donne. La popolazione femminile dunque supera quella maschile di 1.962.760 individui: in media ci sono 52 donne ogni 100 abitanti. Dal 1861 ad oggi, anno del primo censimento, la popolazione italiana è triplicata, passando dai 22 milioni dell'unità d'Italia ai quasi sessanta milioni del 2011.
Dopo stagioni di crescita vicina allo zero, in questi ultimi 10 anni, cioè dal 2001 ad oggi, la popolazione è salita del 4,3% ma unicamente grazie ai figli degli immigrati. Soprattutto nel Centro Nord dove il 70% dei comuni ha avuto un incremento demografico, all'opposto del Sud dove il numero dei residenti è sceso nel 60% dei comuni. In totale in 10 anni il numero dei residenti in Italia è di 2,5 milioni di persone in più.
LE FAMIGLIE
Aumentano ma diventano più piccole le famiglie italiane. Sono passate da 21.810.676 del 2001 alle 24.512.012 del 2011, ma il numero medio di componenti è sceso da 2,6 a 2,4. Vuol dire che globalmente la popolazione aumenta ma le famiglie si "polverizzano", si frammentano, gli anziani vivono da soli e nelle coppie raramente ormai nasce più di un bambino. Ma accanto a questi numeri macro, c'è un dato significativo e allarmante diffuso ieri mattina dall'Istat: nel nostro paese ci sono oltre 71mila famiglie che vivono in baracche, roulotte, auto, e in altri alloggi di fortuna. Il numero di chi non possiede un tetto è triplicato rispetto al 2001, quando queste famiglie erano 23.336. Un "aumento vertiginoso" lo definisce Istat, e dietro questi numeri c'è tutto il dramma di un'Italia sempre più povera. «Casa e lavoro sono alla base della dignità di una persona e senza casa è difficile trovare un lavoro», ha commentato infatti l'arcivescovo di Genova, riferendosi al dramma di chi vive, ancora oggi, sotto un tetto di lamiera.
LE ABITAZIONI
La fotografia dell'Istat, capillare e certosina, dimostra che in questi 10 anni una nuova cementificazione selvaggia ha violentato l'Italia. Ecco i numeri. Nel nostro paese ci sono 14.176.371 edifici, l'11% in più rispetto al 2001, e 28.863.604 abitazioni, il 5,8% in più rispetto al precedente censimento. In 10 anni sono state costruite 1.576.611 nuove case, un vero assalto alle campagne, alle coste, ma soprattutto ai terreni agricoli attorno alle grandi città. Con la creazione di intere aree di nuova urbanizzazione, quartieri fantasma e senza servizi, con migliaia di case invendute e sfitte.
GLI STRANIERI
È con l'immigrazione che davvero cambia il volto dell'Italia, come sottolineano i primi dati di questo nuovo censimento. La popolazione straniera abitualmente dimorante nel nostro paese è cresciuta di tre volte, passando da 1.334.889 immigrati censiti nel 2001, a 3.769.518 del 2011. Gli stranieri rappresentano oggi il 6,4% della popolazione italiana, una crescita impetuosa, soprattutto grazie alle nuove nascite che hanno riportato in positivo il saldo demografico.
Due stranieri su tre vivono al Nord e in particolare nel Nord-Ovest dove oggi si concentra il 36% degli immigrati. «La situazione italiana - scrive l'Istat - si avvicina sempre di più dunque a quella dei paesi con una forte tradizione di immigrazione».
I COMUNI
È Roma il comune con più abitanti d'Italia, con 2.612.068 residenti, mentre il primato di quello più vuoto, con sole 30 anime, va a Pedesina in provincia di Sondrio. Il comune più densamente popolato è Portici in provincia di Napoli, 12.311,7 cittadini per chilometro quadrato. Rognano invece, in provincia di Pavia, detiene il primato di un aumento del 220,% di nuovi abitanti, al quale si contrappone Paludi in provincia di Cosenza, con il più forte calo demografico in dieci anni, 41,2% in meno le persone residenti.
GLI SCOMPARSI
All'esame del censimento mancano un milione e 300 mila italiani. Sono i "non trovati", abitanti presenti nelle anagrafi comunali, ma scomparsi dal territorio. Persone che hanno cambiato la loro dimora abituale senza comunicarlo ai comuni, gente trasferita all'estero, che ha mutato indirizzo, luoghi, città...
Di fatto missing, almeno per il censimento del 2011.

Bugie

POSTATO dal prof d’italiano:

A chi qualche volta ha detto una bugia (tutti?) consiglio questo articolo apparso su la Repubblica il 27 aprile 2012.


Bugie
Piccole menzogne fin dall'asilo
come farli smettere senza punizioni

Di Federico Rampini
«Ha mentito sotto giuramento»: è uno dei reati più gravi in America, ha segnato la fine di tanti leader politici e top manager. Ma la menzogna è una malattia "endemica", legata indissolubilmente ai meccanismi di crescita fin dalla prima infanzia. Si può curare, prevenire, limitare? Il Pinocchio di Collodi col naso che si allunga è la metafora di tutti i bambini del mondo.
Ora l'attitudine a mentire attrae l'attenzione degli scienziati: cosa c'è dietro, come contenere i danni sociali.
Nuove ricerche vengono compiute da équipe universitarie di psicologi dell'infanzia, anche come derivazione di altri progetti: per esempio la mobilitazione contro il bullismo nelle scuole porta a confrontarsi con le bugie sistematiche, dei carnefici e delle vittime. Una di queste ricerche è diretta dalla psicologa dell'età evolutiva Victoria Talwar alla McGill University di Montreal in Canada.
La prima scoperta: il ricorso alla bugia è ancora più diffuso di quanto crediamo, è una tappa nella crescita psicologica del bambino. Uno sviluppo "normale" prevede che all'età di due anni il bambino cominci a mentire. Arrivato al terzo anno, più del 33% mente con frequenza, "per evitare guai".
Dai 4 ai 7 anni di età, oltre alla classica bugia per sottrarsi a una punizione appaiono altre tipologie, la menzogna che serve ad "attirare l'attenzione", oppure a "conquistare approvazione dagli adulti".
Non sono legate a una cultura nazionale, civiltà o etnia: gli psicologi canadesi hanno esteso le loro ricerche all'Inghilterra, alla Cina, e all'Africa occidentale. La tendenza a mentire è costante sotto ogni latitudine. Un'altra scoperta: i genitori sono dei "poliziotti" inefficienti, la loro capacità di scoprire o intuire le bugie dei figli è modesta. Quando i figli sono in età pre-scolastica, i genitori smascherano in media solo il 53% delle bugie. Il risultato peggiora con i figli tra i 6 e gli 8 anni di età: appena il 33% delle bugie viene riconosciuto come tale. Tra i 9 e gli 11 anni di età, la probabilità di essere scoperti scende ulteriormente: appena il 25%.
E con l'adolescenza dilaga un altro tipo di bugia, quella motivata a costruirsi un muro di privacy contro i genitori. Su questi ultimi pesa un "pregiudizio di sincerità": vogliono credere di avere stabilito un rapporto di fiducia con i figli.
D'altra parte, più i ragazzi sono intelligenti e maturi, più mentono con perizia. Qui interviene un altro studio, compiuto da esperti del sistema penale, al John Jay College of Criminal Justice della City University di New York. Rivela che l'arte della menzogna è tanto più raffinata nei ragazzi che hanno "capacità di concentrazione e talenti di socializzazione". Richiede memoria, immaginazione.
Gli psicologi che si occupano di giustizia hanno dei consigli da dare ai genitori. C'è un frasario di reazioni "educative", con cui rispondere alle bugie, più efficaci della sanzione. Il vero problema è l'esempio degli adulti. I figli vedono papà e mamma mentire in continuazione. Un campione analizzato dalla University of Virginia rileva un minimo di "una bugia al giorno" in una popolazione adulta normale, nelle sue interrelazioni sociali. I genitori mentono a volte davanti ai ragazzi e a fin di bene: per esempio dandosi malati in ufficio per poter assistere a una recita scolastica o alla finale di calcio della squadra del figlio. Uno dei compiti più delicati, spiegano gli psicologi, è educare la prole al confine tra la menzogna riprovevole e quella che in inglese si chiama "white lie" ovvero bugia "bianca": quando si mente per omissione, o per diplomazia, per non ferire una persona. Classico il caso della bambina che a una cena da amici sente sua madre fare complimenti alla padrona di casa per il cibo, salvo poi ammettere tra le mura domestiche che era disgustoso. Ma le conseguenze sociali della menzogna spaventano sempre di più gli adulti americani: un sondaggio del sito parentale BabyCenter.com rileva che oltre il 50% dei genitori sono preoccupati per la frequenza delle bugie fra i 2 e i 7 anni, e sono in cerca di consigli dagli specialisti.

The Hunger Games

POSTATO dal prof d’italiano:

Per quelli che hanno visto il film in Spagna e per quelli che andranno a vederlo in Italia, questo articolo apparso su la Repubblica il 26 aprile 2012, anche se è un po’ difficile per lessico e sintassi (con una piccola critica a Zucconi: è proprio necessario scrivere in maniera così snob?).


Di Vittorio Zucconi
WASHINGTON - In un cinema dei grassi sobborghi washingtoniani guardo gli spettatori guardare come si fa a uccidere per mangiare, mentre tracannano vasi di acqua zuccherata e masticano granturco gonfiato di calorie. È passato il primo mese dal lancio di "Hunger Games", il filmone di due ore e mezza che ha esordito al terzo posto storico degli incassi e che sta risucchiando nei multisala di primavera 30 milioni di dollari ogni weekend. Soprattutto da quei teen che già avevano reso favolosamente ricca e celebre Suzanne Collins, comperando il libro dal quale è tratto.
Con le mani sulla bocca le ragazze, per soffocare i gridolini di orrore e contenere le boccate di popcorn, con gli occhi sbarrati e i denti stretti sui grugniti virili i maschi, un popolo di giovani e di meno giovani il cui problema quotidiano è semmai quello di "non" mangiare, guardano un'America finta che ha fame.
Una terra post apocalittica che credono impossibile e non sanno invece essere vicinissima. Seguono l'incantevole eroina, i quasi buoni e i cattivissimi, gli incubi e i succubi muoversi del più crudele reality show mai inventato mentre si danno la caccia, perdono e ritrovano le tracce della loro umanità, semplicemente per sopravvivere.
E per intrattenere il gentile pubblico e i sadici despoti che tiranneggiano, una storia che sembra descritta da Noam Chomsky e prodotta dalla Endemol. È un gioco, anzi, un gioco a doppio e triplo fondo, questo che sembra partire da una premessa drammatica antichissima e banale, quella del brivido surrogato e sintetico. Come davanti al vampiro immortale, allo zombie inarrestabile, ad Annibale il Cannibale, agli alieni vomitati da astronavi indistruttibili alla H. G. Wells, così i personaggi, le premesse, la storia dei "Giochi della Fame", di Hunger Games, finge di essere pura fiction e chiede ai suoi consumatori di sospendere la loro incredulità per provare paure insensate e artificiali.
La storia è necessariamente semplice, per essere fruibile da tutti, anche da chi non abbia mai letto né la trilogia della Collins, né Victor Hugo, né Orwell, né il Koestler di "Buio a Mezzogiorno" o il "Nuovo Mondo" di Huxley e non abbia mai sentito neppure nominare il "Metropolis" di Fritz Lang, il primo film che nel 1927 inaugurò il filone della "distopia" cinematografica, delle visioni della modernità letta come il contrario della "utopia". Narra, detto in massima sintesi per evitare delusioni a chi non avesse letto il libro, di un'America sopravvissuta a una insurrezione popolare interna, alla rivolta armata di quel 99 per cento dei "senza" contro i privilegiati dell'1 per cento di chi ha troppo. Appunto un "Occupy" riletto da Mediaset e da Endemol.
Sconfitti, gli insorti si arrendono e accettano le condizioni draconiane dei vincitori. La nazione viene divisa in dodici distretti, ciascuno dei quali è costretto a selezionare ogni anno due dei suoi giovani che si batteranno fino alla morte contro gli altri, e fino alla sopravvivenza di uno, o di una, soltanto. La lotta mortale dei neo gladiatori è teletrasmessa con risultati di share e di pubblico strepitosi, sotto la guida di un satanico "host", un conduttore, e per il godimento neroniano dei fortunati residenti di "Capitol", la fortezza dell'1 per cento, sopra la quale regna un fantastico, come sempre, Donald Sutherland.
Soltanto la serena incultura storica dei teenager che becchettano granoturco e ingollano beveroni attorno a me impedisce loro di riconoscere l'abbondanza di citazioni e di allusioni a una Roma da Caligola o alla rivolta degli schiavi in quella repubblicana.
Eppure il libro e il copione sbattono sulla faccia dei consumatori di popcorn ogni possibile indizio. L'America post "rivolta spartachista" si chiama non più Usa, ma "Panem" (il "Circenses" è implicito). La capitale non è "Capital", ma "Capitol" che significa Campidoglio.
L'acconciatore, stilista, complice della eroina Katniss, e segretamente ribelle ai despoti del Campidoglio, interpretato dal grande rocker Lenny Kravitz, si chiama Cinna, come Lucio Cornelio, uno dei cospiratori contro Giulio Cesare. I riferimenti al mito dei morituri te salutant fra reietti e miserabili costretti a uccidere per sopravvivere possono sfuggire soltanto ai più zotici fra i miei vicini di poltrona che hanno pagato dieci dollari per il biglietto e il doppio per dolcetti, bevande, tacos, chips, secchi di granoturco dal quale il burro fuso colato dentro sprigiona un acre sentore di vomito di neonato. Mentre seguono il dramma dei poveri che si sbranano per il "panem".
I critici di professione hanno osannato "The Hunger Games", con qualche rara eccezione scettica, e la sentenza del pubblico, la sola che a Hollywood interessi, ha superato ormai i 200 milioni di dollari, un trionfo. Ma se molti hanno letto la metafora più facile nel libro, che il film rende abbagliante, che questo apparente orrore sia soltanto l'estrema evoluzione dei reality show e delle infinite versioni di "Survivor" e di isole di ex famosi bolliti costruite per il nostro insaziabile voyeurismo, qualcuno ha intravisto il doppio fondo di una realtà reale sotto la grande cinematografia e il magnifico casting.
Non un futuro di fame per le masse contro una vita da Trimalcioni per la casta del "Capitol", perché il "panem" nell'America di oggi e in quella di domani non scarseggia e sono semmai i poveri a ingozzarsi di troppe porcherie ipercaloriche, come indicano i dati sull'obesità infantile. È il presente di un pane molto più prezioso e costoso delle merendine imbottite di strutto dolcificato per sembrare crema e di patatine fritte nel sego: è il pane vitale della sanità. Nell'ipotesi, molto concreta e imminente, della cassazione da parte della Corte Suprema della pur timida riforma sanitaria voluta da Obama, e nella rivincita prepotente del cinico darwinismo della destra repubblicana che lascia le cure mediche e chirurgiche a chi può pagare i costi mostruosi, non saranno i giochi della fame, a fare lo show.
Saranno - sono - i duelli gladiatori per un ricovero, un by-pass coronarico, una chemioterapia, un cesareo, una mammografia fra i Miserables. Le file di autentici poveri che accorrono quando dentisti e medici volontari aprono studi improvvisati in palestre e palazzetti dello sport, in stati del Sud, cominciano la sera prima. E finiscono soltanto quando i sanitari ripartono. Guardo i miei vicini, per lo più giovani dunque persuasi della propria immortalità, rabbrividire, commuoversi. Li ascolto applaudire gli effetti speciali e la tesa, inflessibile e insieme tenerissima lotta di Katniss con il suo arco e la sua faretra da (e dai) Diana Cacciatrice - la Collins doveva avere letto molto Svetonio, Sallustio, Giovenale e Plutarco prima di scrivere i suoi supersellers - mentre si devastano il corpo divorando il peggio che la cornucopia industrial-alimentare offra loro.
E prepararsi a diventare quelli che nel prossimo film dovranno uccidere o morire nella foresta buia (Teutoburgo? Sherwood? Guerre Stellari?) delle sequenza finali per un flacone di pillole, una tac o una flebo. Tornano a casa sapendo che il "panem" sulla loro tavola non mancherà, come i loro genitori sapevano che vampiri e zombie e alieni non esistono, spaventati e rassicurati. Non sanno che, se l'America del partito della morte, quello che considera la medicina come un'auto di lusso, la vera sequel realistica di "Hunger Games" dovrà svolgersi in una terra chiamata non "Panem", ma "Salutem".




lunedì 23 aprile 2012

SPOT PUBBLICITARIO CIAO PIAGGIO ANNI '80

postato da: Nicola Girolimetto

Questa è la pubblicità di un ciclomotore che ha fatto la storia dell' Italia
http://youtu.be/v2URMsMe8cg

mercoledì 18 aprile 2012

Pranzetto di classe...2°C

Postato da Buss

Su richiesta di alcune mamme è stata fatta la proposta per un pranzo di noi "superstiti" della classe 2°C per venerdì ore 13.05al Piccolo Bar per una spesa di 7.00€(1 primo e una bibita a scelta).
Se i vostri genitori sono d'accordo fatemi sapere così definiamo meglio il menù o il giorno!!!

Michelin fa scola

Postato da Buss

Concorso educativo per la scuola secondaria di 1°grado questo è il fascicoletto dove è descritto come avere una maggiore guida corretta in strada e sulle regole che bisogna rispettare.
dopo aver appreso si può fare un bellissimo gioco sulla mobilitazione: clicca qui.
per chi possiede la web came potrà farsi fotografare con l'omino michelin stampando l'immagine immagine:"marker"(sagoma omino michelin): clicca qui per fare la foto.




guardate guardate guardate!!!!!!!!!!!!!!!!!

domenica 15 aprile 2012

iMac

Postato da Buss


Gli iMac o computer di nuova generazione sono i migliori nel campo dell'informatica infatti vengono usati per pilotare aerei a distanza o per altri motivi molto importanti per la loro funzione...
per chi non conoscesse questa marca "Apple":

Marca che oltre a produrre computer fabbrica anche cellulari, lettori multimediali e altri oggetti per la casa o il lavoro.
Il nuovo iMac è così:
La cosa bella di questo computer è che mause e tastiera senza fili (wireless), è senza centralina.

Questo è un vero computer altro che i vostri mediocri PC...scommetto che cercando di entrare in questo sito ci mettiate un secolo... invece con uno di questi siete già sulla cresta dell'onda.

martedì 10 aprile 2012

Madrid: Il Museo Nacional del Prado

POSTATO dal prof d’italiano:

Un giorno andremo a visitare anche il Museo del Prado (non so se tutto o una parte); posto qui l’essenziale da sapere su questo museo.

Il Museo Nacional del Prado (che, secondo la guida del Touring Club Italiano sulla Spagna, è «probabilmente la migliore pinacoteca del mondo […] e vanta come principale caratteristica quella di esporre quasi solo capolavori») si chiama così dal nome del prato (prado significa appunto prato) che si estendeva dinnanzi alla chiesa e al monastero reale di San Jeronimos, a est di Madrid. Qui, a metà Settecento, il re di Spagna Carlo III di Borbone aveva deciso di far tracciare un Paseo (un viale alberato destinato al passeggio) sul quale si dovevano affacciare alcuni edifici pubblici dedicati al “progresso della scienza”: un Museo di Scienze Naturali, un Giardino Botanico, un Parco (detto del Buen Retiro) e un Osservatorio Astronomico.
A dar corpo a questa utopia illuminista venne chiamato l’architetto Juan de Villanueva, autorevole esponente del Neoclassicismo. Purtroppo il progetto si frantumò sul nascere. Carlo III morì nel 1788 e un anno dopo scoppiò la Rivoluzione Francese. I lavori sul Paseo si fermarono, il palazzo del Prado restò a metà, e durante l’occupazione napoleonica venne utilizzato come stalla e polveriera.
Dopo la Restaurazione, re Ferdinando VII decise di creare un grande museo a Madrid con le opere d’arte provenienti dalla collezione reale spagnola. Le opere si trovavano sparse in castelli, palazzi e monasteri arredati dagli Asburgo, e re Ferdinando pensò fosse necessario identificare un nuovo edificio capace di ospitare tutti quei tesori. La scelta cadde sul palazzo incompiuto del Paseo del Prado, che il sovrano fece velocemente concludere seguendo il modellino ligneo lasciato dall’architetto Villanueva. Il 19 novembre 1819 il nuovo “Museo Real de Pintura” (questa la prima denominazione) aprì ufficialmente i battenti. Nei primi decenni, la raccolta fu visibile solamente un giorno alla settimana e vi veniva ammesso esclusivamente chi disponeva di un permesso speciale della corte, essendo la collezione di proprietà privata del monarca.
Ma nel 1868 la raccolta reale venne nazionalizzata e da allora prese il nome attuale: Museo Nacional del Prado.
Nel 1819 il catalogo del museo contava solo 311 quadri. Oggi le collezioni ammontano a migliaia di opere d’arte. I dipinti fanno la parte del leone: tremila provengono dalle raccolte reali, duemila dal Museo della Trinidad (spettacolare collezione di un monastero madrileno incamerata nel 1872) e oltre tremila giungono dal cosiddetto Fondo delle Nuove Acquisizioni. La qualità e la quantità dei dipinti conservati (in grado di rappresentare al meglio tutte le scuole pittoriche europee, ad eccezione di quella olandese e inglese) hanno finito col far dimenticare che il Prado racchiude anche eccezionali raccolte di statue, mobili, disegni (cinquemila), incisioni, monete e medaglie, più uno strepitoso tesoro di oreficerie e pietre dure detto “Tesoro del Delfino”, visibile in una sala-bunker celata nei sotterranei del museo.
Già da questi primi numeri è facile intuire che il Prado ha sempre avuto drammatici problemi di spazio, e che periodicamente ha avuto la necessità di allargarsi. A fine Ottocento, ad esempio, la situazione era diventata insostenibile. Fu allora che il giornalista Mariano de Cavia, per denunciare il grave stato di congestione delle raccolte, pubblicò una notizia sconvolgente: uno spaventoso incendio stava bruciando tutti i quadri del Prado. “El Prado està ardiendo!” strillavano i titoli del suo giornale. Naturalmente la notizia era falsa, ma provocò un tale spavento, che immediatamente vennero presi i primi provvedimenti per la decongestione e la messa in sicurezza delle opere.
Recentemente tutti i servizi legati al museo (uffici, depositi, laboratori di restauro, biblioteche, ecc.) sono stati spostati dall’edificio storico (o sono in via di esserlo), per destinare tutto lo spazio disponibile all’esposizione delle raccolte.

Poiché la mole di opere d’arte è enorme e io ho poco tempo per arricchire come vorrei questo post, mi limito a segnalare i “capolavori tra i capolavori” che si trovano in questo museo (e che spero, almeno in parte, di poter ammirare assieme a voi).
Chi vuole saperne di più, può comunque visitare il sito del museo: www.museodelprado.es/ 

Naturalmente il pittore che più rappresenta il Prado è il sivigliano Diego Velázquez, il più amato e probabilmente il più grande dei pittori spagnoli (in questa pinacoteca è conservato circa il 40% di tutta la sua produzione artistica).

Diego Velázquez, Las meninas, o La familia de Felipe IV (1656)

Di questa tela è stato detto, senza eccessiva enfasi, che può essere considerata il capolavoro di tutta la storia della pittura europea. Il suo fascino proviene in parte dall’assoluta verosimiglianza e credibilità ottica della scena e di ogni suo particolare. Ritrae il momento in cui la principessina Margherita, accompagnata dalle dame di corte (meninas) fa ingresso nell’ambiente dove Velázquez sta dipingendo il ritratto della coppia reale, Filippo IV e Marianna d’Austria (li si vede riflessi nello specchio): i reali, cioè, si trovano esattamente nello stesso luogo di chi sta contemplando l’opera e il pittore li sta ritraendo nella grande tela a sinistra. L’infanta Margherita è accompagnata da tutto il suo seguito, compresi i nani Maribárbola e Nicolás di Pertusato. Egli prende a calci il tranquillo cane, indicando così la sua familiarità e noncuranza nei confronti di quanto lo circonda, come se a palazzo fosse una consuetudine assistere alle sedute di pittura di Velázquez.
Nel vano della porta che apre un nuovo spazio rispetto a quello della composizione, si inquadra una figura in sosta sui gradini: è José Nieto Velázquez, primo capo arazziere della regina.

Diego Velázquez, Los borrachos, o El triunfo de Baco (1628-1629)


Velázquez affronta il tema mitologico in maniera diretta e semplice, completamente diversa rispetto agli altri pittori contemporanei; interpreta infatti il mito in chiave quotidiana, come una riunione di poveri contadini che rendono omaggio non a un dio vero e proprio, ma quasi a un giovane che recita la parte del dio del vino. Seduto su una botte, seminudo, costui incorona un devoto, inginocchiato davanti a lui, con scarsa attenzione e convinzione, quasi come in una farsa. Attorno, diversi contadini in atteggiamenti diversi, sono ritratti non con derisione, come accade in dipinti di altri pittori dell’epoca, bensì con rispetto e un senso di dignità per tutti gli esseri umani (siano re o buffoni, principi o contadini), che Velázquez dimostra in tutta la sua opera. Tra i contadini spicca quello che guarda verso le spettatore: il suo volto sorridente trasforma la solennità del rito mitologico in un divertimento, come se il pittore volesse dirci che, in realtà, sta facendo la parodia dell’episodio, forse con intenti satirici verso qualche opera letteraria legata alla mitologia classica. Ai piedi di bacco c’è un’eccezionale natura morta: una brocca di terracotta e una bottiglia di vetro, di cui si vede solo il fondo, appena protetti da un panno. In questo particolare Velázquez evidenzia sottili gradazioni di luce e un gioco di riflessi sulla superficie degli oggetti, che dà risalto ai volumi.


Diego Velázquez, El bufón Don Sebastián de Morra, (1644 circa)


Il nano qui rappresentato fu inizialmente alle dipendenze nelle Fiandre del cardinale infante Don Ferdinando d’Austria. Alla morte del suo signore pensò di ritornare in Spagna, il suo paese, e nel 1643 entrò al servizio del principe Baltasar Carlos, che lo apprezzava tanto da lasciargli, nel suo testamento, uno spadino argentato con tracolla, daga e spada, oltre a due insegne cavalleresche con il giglio e un coltello. È molto probabile, visto che il principe aveva la passione per la caccia, che il nano lo accompagnasse nelle sue battute, il che spiegherebbe l’eredità che gli venne lasciata.
Il volto di de Morra ha un’espressione triste, severa e profonda, da uomo adulto, in contrasto con la piccolezza delle gambe, che Velázquez ha dipinto volte in avanti, con le suole delle scarpe in primo piano; in questo modo il pittore attenua la sensazione penosa dello storpio in piedi, ma gli fa conservare il suo carattere di burattino disarticolato. Don Sebastián osserva lo spettatore con uno sguardo intenso nella cornice nera della frangetta ben pettinata, del folto pizzo e dei baffi ritorti. Le mani piegate verso l’interno come moncherini sono commoventi. L’abbigliamento (un giubbetto d’oro e porpora, sopra il vestito scuro) è degno di un principe ed è probabilmente un dono del suo secondo signore; polsini e colletto sono di sottile pizzo di Fiandra, che la regola vietava ai cavalieri, ma il buffone godeva dei favori del principe ed era per questo qualcosa di più di un semplice cavaliere. Il nano morì nell’ottobre del 1649.

Francisco Goya, La maja desnuda (1796-1798 circa)


La tela, insieme alla compagna La maja vestida, fu con ogni probabilità concepita in coppia: il dipinto con la ragazza vestita doveva coprire quello con la nuda, entrambe montate in una doppia cornice, come un coperchio che poteva essere sollevato.
Sull’ottomana di velluto verde, distesa su cuscini di seta e sul lenzuolo ricamato, in una semplice diagonale, è distesa la maja, una delle immagini più famose della bellezza femminile, esaltazione trionfale della vita. Sorprende la franchezza del nudo: la protagonista si mostra senza il minimo pudore, con le braccia alzate dietro la testa osserva direttamente lo spettatore e non nasconde il pube, fino ad allora assente nei dipinti. La bellezza non è qui un canone astratto e ideale, bensì appassionata partecipazione e piacerà molto agli artisti del secolo successivo, primo fra tutti Edouard Manet con la sua Olympia [chi vuole, se la cerchi in internet].

Francisco Goya, La maja vestida (1796-1798 circa)


Sono ancora aperte le discussioni sull’identità della modella e del committente delle due tele, sul significato del doppio ritratto, vestito e nudo, della stessa protagonista e sulla cronologia (forse la vestida è posteriore alla desnuda). L’abbigliamento, come il giacchino da torero, la fusciacca in vita e le scarpine di seta con ricami d’oro e dalla punta pronunciata, rivela l’alto lignaggio della modella; si tratterebbe quindi di una specie di maschera: una dama della buona società si diverte ad apparire plebea, in un atteggiamento spregiudicato e provocante, libero dalle convenzioni. La ragazza ricalca l’immagine della tela compagna, ma notevoli sono le differenze d’intonazione e di tavolozza cromatica. Qui è inscenato un momento più serale, con luci e ombre intense, e il corpo risalta nello splendore della veste bianca che si infossa tra le gambe. La posa della modella è più distesa e serena, e poggia sui polpacci sporgenti dal divano.

Francisco Goya, Il 3 maggio 1808 (1814)


La scena rappresenta un episodio della feroce rappresaglia delle truppe francesi: la fucilazione degli abitanti di Madrid insorti il giorno prima contro le forze d’occupazione napoleoniche. Il soggetto aveva una funzione celebrativa e venne eseguito sei anni dopo gli avvenimenti, per perpetuare la memoria dell’eroica resistenza madrilena; ma nel dipinto non c’è nulla di retorico. Nel sangue tre cadaveri a terra, mentre un frate e alcuni popolani stanno per ricevere la scarica; accanto a loro sta arrivando un’altra fila di condannati che vanno a morire. È notte, contro il cielo buio si scorge il profilo della capitale, e in primo piano, circondato da luci penetranti e ombre portate, contro il muro illuminato da una lanterna, avviene l’esecuzione brutale e spietata. L’attenzione è concentrata sulla figura del condannato in camicia bianca, con le braccia levate, che sfida i soldati senza volto, piegati e raccolti nella mira, mentre il frate prega e gli altri danno segni disperati. Ognuno affronta la morte in un’atmosfera resa più agghiacciante dal sangue che si sparge al suolo, sino a lambire i piedi dei carnefici. Il dipinto è sicuramente una delle più potenti rappresentazioni della barbarie degli uomini: la camicia candida, prossima a essere trapassata dalle pallottole, diventa lo stendardo di una denuncia universale contro la guerra.

Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie (1510 circa)


In mancanza di notizie sicure sul soggetto e sulla committenza, molte diverse interpretazioni sono state date nei secoli di questa opera enigmatica: dall’esoterismo all’alchimia, dalla trasposizione di passi della letteratura all’appartenenza del pittore a sette di eretici. Il trittico ha una ricchezza iconografica enorme soprattutto nella tavola centrale, però l’opera va letta proprio come un trittico, in sequenza da sinistra a destra. Il punto di partenza è il giardino del Paradiso terrestre, dove avviene la creazione di Eva, sotto lo sguardo fiducioso di Adamo. Nello stesso momento e nello stesso luogo, però, prendono vita creature mostruose: dalla civetta che al centro della fontana osserva la scena (nel Medioevo questo uccello era simbolo del male) agli animali che in basso incominciano a divorarsi tra di loro, dal cane a due zampe a quell’essere, metà pesce e metà anitra, che simboleggia la stupidità del clero, perché indossa un cappuccio da frate e legge un libro che mostra di non capire. E così via, in una ricchezza inventiva straordinaria, che continua nella tavola centrale (il paesaggio è infatti unitario), dove il tema fondamentale è quello dello scatenarsi della lussuria (rappresentata dai frutti rossi – fragole, ciliegie, more, lamponi - disseminati ovunque): il senso del dipinto, dunque, potrebbe essere quello che la lussuria sia la diretta conseguenza della creazione della donna. L’umanità, sorda ai richiami di Dio e caduta irrimediabilmente nel peccato, viene orribilmente punita, nella tavola di destra,  secondo la legge del contrappasso, con raffinate e sadiche torture provocate da strumenti musicali, mentre sullo sfondo una città sta bruciando. Tra i dettagli, spicca un diabolico macchinario, formato da un enorme paio di orecchie, trafitto da una freccia e attraversato da una lunga lama di coltello; forse un richiamo al detto evangelico: “Chi ha orecchie per intendere, intenda”. Evidente è anche l’essere mostruoso col corpo formato da un guscio d’uovo rotto e con gambe che paiono crani di cervi e alberi secchi, che appoggiano su barche; qualcuno ha ipotizzato che questo mostro raffiguri lo stesso Bosch. Tornando alla tavola centrale, da notare che gli uomini si assomigliano tutti: non per incapacità del pittore a rappresentarli, bensì per lo scopo di massificare gli esseri umani. Da notare, inoltre, una coppia chiusa dentro una sfera di cristallo, che esce da un fiore come una bolla di sapone; il fiore, a sua volta, esce da una forma ovoidale, da dove un invidioso (l’invidia è simboleggiata dal topo) osserva una coppia che fa l’amore dentro una conchiglia.

Particolari del dipinto:












sabato 7 aprile 2012

Madrid: El Palacio Real

POSTATO dal prof d’italiano:

A Madrid andremo a visitare anche il Palazzo Reale, dove risiedevano i re di Spagna fino al 1931, quando Alfonso XIII venne esiliato; oggi i sovrani spagnoli vivono al palazzo de la Zarzuela, ma qui si tengono ancora, a volte, alcune cerimonie di stato. Il Palazzo fu utilizzato anche dal generale Franco per affari di stato e per tenere discorsi alle folle di sostenitori, affacciandosi dal balcone orientale che dà sulla Plaza de Oriente.

PALACIO REAL

Panoramica sul Palazzo Reale

Veduta del Palazzo Reale

La facciata del Palazzo Reale

La pianta del Palazzo Reale

La sede di rappresentanza della monarchia spagnola è un edificio dall’aspetto neoclassico, di grandi proporzioni (ogni lato misura circa 140 metri), costruito su un alto promontorio affacciato sul Rió Manzanares. Per secoli qui era sorta una fortezza reale (alcázar), finché, a seguito di un incendio nel 1734, il re Filippo V ordinò che venisse trasformata in palazzo. All’esterno, il palazzo si presenta nelle pulite forme progettate da Giovanni Battista Sacchetti e da Ventura Rodríguez, che alla metà del 1700 modificarono il progetto originario della prima metà del secolo, secondo i gusti del nuovo sovrano Carlo III.
La visita degli interni, sette-ottocenteschi, incomincia dall’ampio cortile della Plaza de la Armería, dominata a sud dalla mole della moderna cattedrale e fiancheggiata sui lati lunghi da portici.
Raggiunto l’atrio d’ingresso, con pilastri, colonne e una tatua di Carlo III, si sale per la monumentale escalera principal, disegnata da Francisco Sabatini e con la volta dipinta da Corrado Giaquinto (La monarchia spagnola rende omaggio alla religione).


La scalinata principale

Corrado Giaquinto, La monarchia spagnola rende omaggio alla religione

Al primo piano ha inizio la visita delle sale principali con il salón de Alabarderos: sotto il soffitto affrescato da Gian Battista Tiepolo (Apoteosi di Enea), si ammirano arazzi settecenteschi e dipinti di Luca Giordano.

Il  salón de Alabarderos

G.B. Tiepolo, Apoteosi di Enea

 Si passa quindi nel salón de Columnas, dove si ammirano, sul soffitto, l’affresco con la Nascita del Sole di Corrado Giaquinto, e alle pareti cinque arazzi con gli Atti degli Apostoli, tessuti a Bruxelles nella prima metà del Seicento su cartoni di Raffaello; tra le sculture, busti seicenteschi di imperatori romani e una statua di Carlo V di Pompeo Leoni. In questa sala fu firmato il documento con cui la Spagna si unì all’Unione Europea, sull’ottocentesco tavolo sostenuto da sfingi.

Il salón de Columnas

C. Giaquinto, La nascita del Sole

Segue quindi il salón del Trono, che conserva la decorazione e gli arredi dell’epoca di Carlo III (tra cui due lampadari in cristallo, numerosi candelabri e specchi e pareti ricoperte di velluto rosso con ricami in argento); l’affresco della volta, che raffigura l’Allegoria della grandezza della monarchia spagnola (1764) è di G. B. Tiepolo. Notevole è la vista sui giardini del palazzo, chiamati Campo del Moro.

Il salón del Trono

G. B. Tiepolo:
sopra L'allegoria della grandezza della monarchia spagnola nell'insieme,
sotto, una serie di particolari





GLI APPARTAMENTI DI CARLO III:
Prendono il nome da Mattia Gasparini, l’artista napoletano che ne curò la decorazione. Nel primo ambiente (saleta de Gasparini), usato dal re come sala da pranzo (la regina consumava i pasti da sola in una sua sala privata), è originale solo la cupola, con il Trionfo dell’Imperatore Traiano di Anton Raphale Mengs; mentre l’antecámara de Gasparini, con un altro dipinto del Mengs nel soffitto (Trionfo di Ercole), ha conservato della sua ricca quadreria (finita al Museo del Prado) quattro ritratti di Carlo IV e di Maria Luisa di Parma, opera di Goya.

La saleta de Gasparini

A. R. Mengs, Trionfo dell'imperatore Traiano

L’antecámara de Gasparini

Si entra quindi nell’ambiente più prezioso degli appartamenti di Carlo III, il salón de Gasparini, ancora integro nell’impianto decorativo rococò; i busti di Lucio e Caio sono del I secolo.

Il salón de Gasparini

La successiva stanza, nota come salón de Carlos III, era la camera da letto del sovrano (qui vi morì nel 1788); il ritratto del re è di Mariano Maella.

Il salón de Carlos III

Nella sala de Porcelana, pareti e soffitto sono decorati da piastrelle di maiolica (1770); al centro, un orologio-planetario ottocentesco.
Il salone del comedor de Gala, inaugurato nel 1879 e impiegato per i banchetti ufficiali dei reali di Spagna (c’è posto, in 400 mq, per 145 commensali), presenta notevoli arazzi fiamminghi della metà del Cinquecento; nel soffitto, Aurora di Anton Raphael Mengs, Colombo di fronte ai Re cattolici di Antonio González Velázquez e Resa di Granada di Francisco Bayeu.

Il salone del comedor de Gala

A. R. Mengs, Aurora

A. G. Velázquez, Colombo di fronte ai Re cattolici

F. Bayeu, Resa di Granada


Nella sala de Relojes ci sono preziosi orologi, tra cui uno francese dei primi del Settecento (con un elefante che regge il globo) e due esemplari inglesi, uno rococò e l’altro in stile georgiano. Nella sala de Piezas de Plata si ammira una collezione di pezzi d’argenteria d’uso quotidiano, esposti in ordine cronologico.


Sopra e sotto, la sala de Piezas de Plata


Nella sala de Piezas de Porcelana si segnalano soprattutto le stoviglie coi paesaggi (vajilla de paisajes) del 1828; in tutto vi sono 630 pezzi, ognuno con una decorazione differente. Notevole infine la raccolta di strumenti musicali, soprattutto grazie alla presenza di preziosi Stradivari (foto sottostante).


La Real Capilla (1749-57) ha pareti decorate da colonne di marmo nero, affreschi di Corrado Giaquinto e, sull’altare maggiore, un Arcangelo Michele di Francisco Bayeu, copia di un originale perduto di Luca Giordano.


Sopra e sotto, due immagini della Capilla Real


Si accede quindi agli ottocenteschi salottini di María Cristina, che presentano una mescolanza di tipologie decorative, dal pompeiano al neogotico: sono 4 piccole stanze, che durante il regno di Alfonso XII comprendevano una sala da biliardo in stile americano, una sala per fumatori in stile orientale, un salón de Estucos usata dalla regina come camera da letto, e un Gabinete de Maderas de Indias, usato come ufficio.
Interessante l’esposizione, che si articola in più sale, della Farmacia real, con vasi di maiolica, tra cui preziosi pezzi prodotti a Talavera, e antichi alambicchi; vi sono anche ricettari con medicine prescritte alla famiglia reale.

Sopra e sotto: due immagini della Farmacia Real


REAL ARMERÍA:
Il corpo di fabbrica che chiude a occidente l’ampio cortile della plaza de la Armería conserva una raccolta di cimeli e una collezione di armi e armature tra le più ricche al mondo. Il nucleo della collezione, iniziata da Carlo V, è formato dai pezzi che i sovrani della dinastia degli Asburgo si fecero costruire dai migliori armaioli italiani e tedeschi. Tra questi, una elaborata armatura appartenuta a Carlo I, prima di diventare l’imperatore Carlo V. Questa armeria può essere considerata il primo museo di Madrid, visto che è stata aperta al pubblico quando Filippo II ereditò la collezione dal padre; in origine custodiva sia le armi utilizzate dall’esercito spagnolo, sia quelle sottratte agli eserciti nemici sconfitti. (Di seguito, 3 immagini dell'Armeria)




CAMPO DEL MORO:
Questo è il nome dei bei giardini d’inverno del Palazio Ral, che lo circondano per tre lati. Il Campo del Moro fu sistemato alla metà dell’Ottocento, sotto il regno di Isabella II, seguendo il gusto inglese dominante a quel tempo. All’estremità nord-occidentale dei giardini si trova il Museo de Carruajes, ampia e preziosa raccolta di carrozze prevalentemente del XVIII e XIX secolo, con esemplari anche più antichi.
(Di seguito, 3 immagini dei giardini)