martedì 10 aprile 2012

Madrid: Il Museo Nacional del Prado

POSTATO dal prof d’italiano:

Un giorno andremo a visitare anche il Museo del Prado (non so se tutto o una parte); posto qui l’essenziale da sapere su questo museo.

Il Museo Nacional del Prado (che, secondo la guida del Touring Club Italiano sulla Spagna, è «probabilmente la migliore pinacoteca del mondo […] e vanta come principale caratteristica quella di esporre quasi solo capolavori») si chiama così dal nome del prato (prado significa appunto prato) che si estendeva dinnanzi alla chiesa e al monastero reale di San Jeronimos, a est di Madrid. Qui, a metà Settecento, il re di Spagna Carlo III di Borbone aveva deciso di far tracciare un Paseo (un viale alberato destinato al passeggio) sul quale si dovevano affacciare alcuni edifici pubblici dedicati al “progresso della scienza”: un Museo di Scienze Naturali, un Giardino Botanico, un Parco (detto del Buen Retiro) e un Osservatorio Astronomico.
A dar corpo a questa utopia illuminista venne chiamato l’architetto Juan de Villanueva, autorevole esponente del Neoclassicismo. Purtroppo il progetto si frantumò sul nascere. Carlo III morì nel 1788 e un anno dopo scoppiò la Rivoluzione Francese. I lavori sul Paseo si fermarono, il palazzo del Prado restò a metà, e durante l’occupazione napoleonica venne utilizzato come stalla e polveriera.
Dopo la Restaurazione, re Ferdinando VII decise di creare un grande museo a Madrid con le opere d’arte provenienti dalla collezione reale spagnola. Le opere si trovavano sparse in castelli, palazzi e monasteri arredati dagli Asburgo, e re Ferdinando pensò fosse necessario identificare un nuovo edificio capace di ospitare tutti quei tesori. La scelta cadde sul palazzo incompiuto del Paseo del Prado, che il sovrano fece velocemente concludere seguendo il modellino ligneo lasciato dall’architetto Villanueva. Il 19 novembre 1819 il nuovo “Museo Real de Pintura” (questa la prima denominazione) aprì ufficialmente i battenti. Nei primi decenni, la raccolta fu visibile solamente un giorno alla settimana e vi veniva ammesso esclusivamente chi disponeva di un permesso speciale della corte, essendo la collezione di proprietà privata del monarca.
Ma nel 1868 la raccolta reale venne nazionalizzata e da allora prese il nome attuale: Museo Nacional del Prado.
Nel 1819 il catalogo del museo contava solo 311 quadri. Oggi le collezioni ammontano a migliaia di opere d’arte. I dipinti fanno la parte del leone: tremila provengono dalle raccolte reali, duemila dal Museo della Trinidad (spettacolare collezione di un monastero madrileno incamerata nel 1872) e oltre tremila giungono dal cosiddetto Fondo delle Nuove Acquisizioni. La qualità e la quantità dei dipinti conservati (in grado di rappresentare al meglio tutte le scuole pittoriche europee, ad eccezione di quella olandese e inglese) hanno finito col far dimenticare che il Prado racchiude anche eccezionali raccolte di statue, mobili, disegni (cinquemila), incisioni, monete e medaglie, più uno strepitoso tesoro di oreficerie e pietre dure detto “Tesoro del Delfino”, visibile in una sala-bunker celata nei sotterranei del museo.
Già da questi primi numeri è facile intuire che il Prado ha sempre avuto drammatici problemi di spazio, e che periodicamente ha avuto la necessità di allargarsi. A fine Ottocento, ad esempio, la situazione era diventata insostenibile. Fu allora che il giornalista Mariano de Cavia, per denunciare il grave stato di congestione delle raccolte, pubblicò una notizia sconvolgente: uno spaventoso incendio stava bruciando tutti i quadri del Prado. “El Prado està ardiendo!” strillavano i titoli del suo giornale. Naturalmente la notizia era falsa, ma provocò un tale spavento, che immediatamente vennero presi i primi provvedimenti per la decongestione e la messa in sicurezza delle opere.
Recentemente tutti i servizi legati al museo (uffici, depositi, laboratori di restauro, biblioteche, ecc.) sono stati spostati dall’edificio storico (o sono in via di esserlo), per destinare tutto lo spazio disponibile all’esposizione delle raccolte.

Poiché la mole di opere d’arte è enorme e io ho poco tempo per arricchire come vorrei questo post, mi limito a segnalare i “capolavori tra i capolavori” che si trovano in questo museo (e che spero, almeno in parte, di poter ammirare assieme a voi).
Chi vuole saperne di più, può comunque visitare il sito del museo: www.museodelprado.es/ 

Naturalmente il pittore che più rappresenta il Prado è il sivigliano Diego Velázquez, il più amato e probabilmente il più grande dei pittori spagnoli (in questa pinacoteca è conservato circa il 40% di tutta la sua produzione artistica).

Diego Velázquez, Las meninas, o La familia de Felipe IV (1656)

Di questa tela è stato detto, senza eccessiva enfasi, che può essere considerata il capolavoro di tutta la storia della pittura europea. Il suo fascino proviene in parte dall’assoluta verosimiglianza e credibilità ottica della scena e di ogni suo particolare. Ritrae il momento in cui la principessina Margherita, accompagnata dalle dame di corte (meninas) fa ingresso nell’ambiente dove Velázquez sta dipingendo il ritratto della coppia reale, Filippo IV e Marianna d’Austria (li si vede riflessi nello specchio): i reali, cioè, si trovano esattamente nello stesso luogo di chi sta contemplando l’opera e il pittore li sta ritraendo nella grande tela a sinistra. L’infanta Margherita è accompagnata da tutto il suo seguito, compresi i nani Maribárbola e Nicolás di Pertusato. Egli prende a calci il tranquillo cane, indicando così la sua familiarità e noncuranza nei confronti di quanto lo circonda, come se a palazzo fosse una consuetudine assistere alle sedute di pittura di Velázquez.
Nel vano della porta che apre un nuovo spazio rispetto a quello della composizione, si inquadra una figura in sosta sui gradini: è José Nieto Velázquez, primo capo arazziere della regina.

Diego Velázquez, Los borrachos, o El triunfo de Baco (1628-1629)


Velázquez affronta il tema mitologico in maniera diretta e semplice, completamente diversa rispetto agli altri pittori contemporanei; interpreta infatti il mito in chiave quotidiana, come una riunione di poveri contadini che rendono omaggio non a un dio vero e proprio, ma quasi a un giovane che recita la parte del dio del vino. Seduto su una botte, seminudo, costui incorona un devoto, inginocchiato davanti a lui, con scarsa attenzione e convinzione, quasi come in una farsa. Attorno, diversi contadini in atteggiamenti diversi, sono ritratti non con derisione, come accade in dipinti di altri pittori dell’epoca, bensì con rispetto e un senso di dignità per tutti gli esseri umani (siano re o buffoni, principi o contadini), che Velázquez dimostra in tutta la sua opera. Tra i contadini spicca quello che guarda verso le spettatore: il suo volto sorridente trasforma la solennità del rito mitologico in un divertimento, come se il pittore volesse dirci che, in realtà, sta facendo la parodia dell’episodio, forse con intenti satirici verso qualche opera letteraria legata alla mitologia classica. Ai piedi di bacco c’è un’eccezionale natura morta: una brocca di terracotta e una bottiglia di vetro, di cui si vede solo il fondo, appena protetti da un panno. In questo particolare Velázquez evidenzia sottili gradazioni di luce e un gioco di riflessi sulla superficie degli oggetti, che dà risalto ai volumi.


Diego Velázquez, El bufón Don Sebastián de Morra, (1644 circa)


Il nano qui rappresentato fu inizialmente alle dipendenze nelle Fiandre del cardinale infante Don Ferdinando d’Austria. Alla morte del suo signore pensò di ritornare in Spagna, il suo paese, e nel 1643 entrò al servizio del principe Baltasar Carlos, che lo apprezzava tanto da lasciargli, nel suo testamento, uno spadino argentato con tracolla, daga e spada, oltre a due insegne cavalleresche con il giglio e un coltello. È molto probabile, visto che il principe aveva la passione per la caccia, che il nano lo accompagnasse nelle sue battute, il che spiegherebbe l’eredità che gli venne lasciata.
Il volto di de Morra ha un’espressione triste, severa e profonda, da uomo adulto, in contrasto con la piccolezza delle gambe, che Velázquez ha dipinto volte in avanti, con le suole delle scarpe in primo piano; in questo modo il pittore attenua la sensazione penosa dello storpio in piedi, ma gli fa conservare il suo carattere di burattino disarticolato. Don Sebastián osserva lo spettatore con uno sguardo intenso nella cornice nera della frangetta ben pettinata, del folto pizzo e dei baffi ritorti. Le mani piegate verso l’interno come moncherini sono commoventi. L’abbigliamento (un giubbetto d’oro e porpora, sopra il vestito scuro) è degno di un principe ed è probabilmente un dono del suo secondo signore; polsini e colletto sono di sottile pizzo di Fiandra, che la regola vietava ai cavalieri, ma il buffone godeva dei favori del principe ed era per questo qualcosa di più di un semplice cavaliere. Il nano morì nell’ottobre del 1649.

Francisco Goya, La maja desnuda (1796-1798 circa)


La tela, insieme alla compagna La maja vestida, fu con ogni probabilità concepita in coppia: il dipinto con la ragazza vestita doveva coprire quello con la nuda, entrambe montate in una doppia cornice, come un coperchio che poteva essere sollevato.
Sull’ottomana di velluto verde, distesa su cuscini di seta e sul lenzuolo ricamato, in una semplice diagonale, è distesa la maja, una delle immagini più famose della bellezza femminile, esaltazione trionfale della vita. Sorprende la franchezza del nudo: la protagonista si mostra senza il minimo pudore, con le braccia alzate dietro la testa osserva direttamente lo spettatore e non nasconde il pube, fino ad allora assente nei dipinti. La bellezza non è qui un canone astratto e ideale, bensì appassionata partecipazione e piacerà molto agli artisti del secolo successivo, primo fra tutti Edouard Manet con la sua Olympia [chi vuole, se la cerchi in internet].

Francisco Goya, La maja vestida (1796-1798 circa)


Sono ancora aperte le discussioni sull’identità della modella e del committente delle due tele, sul significato del doppio ritratto, vestito e nudo, della stessa protagonista e sulla cronologia (forse la vestida è posteriore alla desnuda). L’abbigliamento, come il giacchino da torero, la fusciacca in vita e le scarpine di seta con ricami d’oro e dalla punta pronunciata, rivela l’alto lignaggio della modella; si tratterebbe quindi di una specie di maschera: una dama della buona società si diverte ad apparire plebea, in un atteggiamento spregiudicato e provocante, libero dalle convenzioni. La ragazza ricalca l’immagine della tela compagna, ma notevoli sono le differenze d’intonazione e di tavolozza cromatica. Qui è inscenato un momento più serale, con luci e ombre intense, e il corpo risalta nello splendore della veste bianca che si infossa tra le gambe. La posa della modella è più distesa e serena, e poggia sui polpacci sporgenti dal divano.

Francisco Goya, Il 3 maggio 1808 (1814)


La scena rappresenta un episodio della feroce rappresaglia delle truppe francesi: la fucilazione degli abitanti di Madrid insorti il giorno prima contro le forze d’occupazione napoleoniche. Il soggetto aveva una funzione celebrativa e venne eseguito sei anni dopo gli avvenimenti, per perpetuare la memoria dell’eroica resistenza madrilena; ma nel dipinto non c’è nulla di retorico. Nel sangue tre cadaveri a terra, mentre un frate e alcuni popolani stanno per ricevere la scarica; accanto a loro sta arrivando un’altra fila di condannati che vanno a morire. È notte, contro il cielo buio si scorge il profilo della capitale, e in primo piano, circondato da luci penetranti e ombre portate, contro il muro illuminato da una lanterna, avviene l’esecuzione brutale e spietata. L’attenzione è concentrata sulla figura del condannato in camicia bianca, con le braccia levate, che sfida i soldati senza volto, piegati e raccolti nella mira, mentre il frate prega e gli altri danno segni disperati. Ognuno affronta la morte in un’atmosfera resa più agghiacciante dal sangue che si sparge al suolo, sino a lambire i piedi dei carnefici. Il dipinto è sicuramente una delle più potenti rappresentazioni della barbarie degli uomini: la camicia candida, prossima a essere trapassata dalle pallottole, diventa lo stendardo di una denuncia universale contro la guerra.

Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie (1510 circa)


In mancanza di notizie sicure sul soggetto e sulla committenza, molte diverse interpretazioni sono state date nei secoli di questa opera enigmatica: dall’esoterismo all’alchimia, dalla trasposizione di passi della letteratura all’appartenenza del pittore a sette di eretici. Il trittico ha una ricchezza iconografica enorme soprattutto nella tavola centrale, però l’opera va letta proprio come un trittico, in sequenza da sinistra a destra. Il punto di partenza è il giardino del Paradiso terrestre, dove avviene la creazione di Eva, sotto lo sguardo fiducioso di Adamo. Nello stesso momento e nello stesso luogo, però, prendono vita creature mostruose: dalla civetta che al centro della fontana osserva la scena (nel Medioevo questo uccello era simbolo del male) agli animali che in basso incominciano a divorarsi tra di loro, dal cane a due zampe a quell’essere, metà pesce e metà anitra, che simboleggia la stupidità del clero, perché indossa un cappuccio da frate e legge un libro che mostra di non capire. E così via, in una ricchezza inventiva straordinaria, che continua nella tavola centrale (il paesaggio è infatti unitario), dove il tema fondamentale è quello dello scatenarsi della lussuria (rappresentata dai frutti rossi – fragole, ciliegie, more, lamponi - disseminati ovunque): il senso del dipinto, dunque, potrebbe essere quello che la lussuria sia la diretta conseguenza della creazione della donna. L’umanità, sorda ai richiami di Dio e caduta irrimediabilmente nel peccato, viene orribilmente punita, nella tavola di destra,  secondo la legge del contrappasso, con raffinate e sadiche torture provocate da strumenti musicali, mentre sullo sfondo una città sta bruciando. Tra i dettagli, spicca un diabolico macchinario, formato da un enorme paio di orecchie, trafitto da una freccia e attraversato da una lunga lama di coltello; forse un richiamo al detto evangelico: “Chi ha orecchie per intendere, intenda”. Evidente è anche l’essere mostruoso col corpo formato da un guscio d’uovo rotto e con gambe che paiono crani di cervi e alberi secchi, che appoggiano su barche; qualcuno ha ipotizzato che questo mostro raffiguri lo stesso Bosch. Tornando alla tavola centrale, da notare che gli uomini si assomigliano tutti: non per incapacità del pittore a rappresentarli, bensì per lo scopo di massificare gli esseri umani. Da notare, inoltre, una coppia chiusa dentro una sfera di cristallo, che esce da un fiore come una bolla di sapone; il fiore, a sua volta, esce da una forma ovoidale, da dove un invidioso (l’invidia è simboleggiata dal topo) osserva una coppia che fa l’amore dentro una conchiglia.

Particolari del dipinto:












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