domenica 4 marzo 2012

Giovanni Pascoli

POSTATO dal prof d’italiano:
 (non assomiglia un po' al nostro Preside?)

Nato a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855 e morto a Bologna il 6 aprile 1912, Giovanni Pascoli è stato uno dei poeti più rappresentativi di un movimento culturale che prende il nome di decadentismo, al quale Pascoli va iscritto, anche se non vi partecipò in maniera diretta e programmatica. Nelle numerose raccolte di poesie che pubblicò si riconoscono alcuni temi principali, quali (in maniera molto grossolana)
-         l’interesse per i piccoli fatti della vita quotidiana
-         l’idea che nella campagna c’è la vera vita, fatta dei sentimenti più profondi
-         il concetto che i fanciulli (o gli adulti che sono rimasti fanciulli dentro) hanno una conoscenza più vera della vita
La sua poesia sembra a volte molto semplice, in realtà non lo è, perché un’altra caratteristica di questo poeta è la continua voglia di sperimentare metriche e lessico nuovi.

Postiamo qui le poesie che ci piacciono; comincio io con due poesie che mi piacciono molto, tratte dalla sua prima raccolta poetica, pubblicata tra il 1891 e il 1911 (con progressivi ampliamenti), che si intitola Myricae (pronuncia “mirice”; sono le tamerici, semplici alberi di campagna):

IL LAMPO

E cielo e terra si mostrò qual era:

la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.


IL TUONO

E nella notte nera come il nulla,

a un tratto, col fragor d’arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimaneggio rinfranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s’udì di madre, e il moto di una culla.

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X AGOSTO
(da Myricae)

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra spini;
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.

Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!


(scelta da Alessandra S. e Beatrice D.)

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CANZONE DI MARZO
(da Canti di Castelvecchio)

Che torbida notte di marzo!
Ma che mattinata tranquilla!
che cielo pulito! che sfarzo
di perle! Ogni stelo, una stilla
che ride: sorriso che brilla
         su lunghe parole.

Le serpi si sono destate
col tuono che rimbombò primo.
Guizzavano, udendo l'estate,
le verdi cicigne tra il timo;
battevan la coda sul limo
         le biscie acquaiole.

Ancor le fanciulle si sono
destate, ma per un momento:
pensarono serpi, a quel tuono;
sognarono l'incantamento.
In sogno gettavano al vento
         le loro pezzuole.

Nell'aride bresche anco l'api
si sono destate agli schiocchi.
La vite gemeva dai capi,
fremevano i gelsi nei nocchi.
Ai lampi sbattevano gli occhi
         le prime viole.

Han fatto, venendo dal mare,
le rondini tristo viaggio.
Ma ora, vedendo tremare
sopr'ogni acquitrino il suo raggio,
cinguettano in loro linguaggio,
         ch'è ciò che ci vuole. 

Sì, ciò che ci vuole. Le loro
casine, qualcuna si sfalda,
qualcuna è già rotta. Lavoro
ci vuole, ed argilla più salda;
perché ci stia comoda e calda
         la garrula prole.


(scelta da Silvia B.)

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NOTTE D’INVERNO
(da Canti di Castelvecchio)

Il Tempo chiamò dalla torre
lontana. . . Che strepito! È un treno,
là, se non è il fiume che corre.

O notte! Né prima io l'udiva,
lo strepito rapido, il pieno
fragore di treno che arriva;

sì, quando la voce straniera,
di bronzo, me chiese; sì, quando
mi venne a trovare ov'io era,
     squillando squillando
     nell'oscurità.

Il treno s'appressa. . . Già sento
la querula tromba che geme,
là, se non è l'urlo del vento.

E il treno rintrona rimbomba,
rimbomba rintrona, ed insieme
risuona una querula tromba.

E un'altra, ed un'altra - Non essa
m'annunzia che giunge? - io domando.
- Quest'altra! - Ed il treno s'appressa
     tremando tremando
     nell'oscurità.

Sei tu che ritorni. Tra poco
ritorni, tu, piccola dama,
sul mostro dagli occhi di fuoco. 

Hai freddo? paura? C'è un tetto,
c'è un cuore, c'è il cuore che t'ama
qui! Riameremo. T'aspetto.

Già il treno rallenta, trabalza,
sta. . . Mia giovinezza, t'attendo!
Già l'ultimo squillo s'inalza
     gemendo gemendo
     nell'oscurità . . .

E il Tempo lassù dalla torre
mi grida ch'è giorno. Risento
la tromba e la romba che corre.

Il giorno è coperto di brume.
Quel flebile suono è del vento,
quel labile tuono è del fiume.

È il fiume ed è il vento, so bene,
che vengono vengono, intendo,
così come all'anima viene,
     piangendo piangendo,
     ciò che se ne va.


(scelta da Matteo F.)

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I DUE GIROVAGHI
(da Canti di Castelvecchio)

Siamo soli. Bianca l’aria
vola come in un mulino.
Nella terra solitaria
siamo in due, sempre in cammino.
Soli i miei, soli i tuoi stracci
per le vie. Non altro suono
che due gridi:
           - Oggi ci sono
e doman me ne vo...
           - Stacci!
           stacci!stacci!

Io di qua, battendo i denti,
tu di là, pestando i piedi:
non ti vedo, e tu mi senti;
io ti sento, e non mi vedi.
Noi gettiamo i nostri urlacci,
come cani in abbandono
fuor dell’uscio:
           - Oggi ci sono
e doman me ne vo...
           - Stacci!
           stacci! stacci!

Questa terra ha certe porte,
che ci s’entra e non se n’esce.
È il castello della morte.
S’ode qui l’erba che cresce:
crescer l’erba e i rosolacci
qui, di notte, al tempo buono:
ma nient’altro...
           - Oggi ci sono
e doman me ne vo...
           - Stacci!
           stacci! stacci!

C’ incontriamo...Io ti derido?!
No, compagno nello stento!
No, fratello! È un vano grido
che gettiamo al freddo vento.
Né c’è un viso che s’affacci
per dire, Eh! spazzacamino!...
per dire, Oh! quel vecchiettino
degli stacci...
           degli stacci!...
           - stacci! stacci!


(scelta daSimone M. e Francesco L.)

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IL LIBRO
(da Primi poemetti)

I
Sopra il leggìo di quercia è nell'altana,
aperto, il libro. Quella quercia ancora,
esercitata dalla tramontana,

viveva nella sua selva sonora;
e quel libro era antico. Eccolo: aperto,
sembra che ascolti il tarlo che lavora.

E sembra ch'uno (donde mai? non, certo,
dal tremulo uscio, cui tentenna il vento
delle montagne e il vento del deserto,

sorti d'un tratto...) sia venuto, e lento
sfogli - se n'ode il crepitar leggiero -
le carte. E l'uomo non vedo io: lo sento,

invisibile, là, come il pensiero...

II
Un uomo è là, che sfoglia dalla prima
carta all'estrema, rapido, e pian piano
va, dall'estrema, a ritrovar la prima.

E poi nell'ira del cercar suo vano
volta i fragili fogli a venti, a trenta,
a cento, con l'impazïente mano.

E poi li volge a uno a uno, lenta-
mente, esitando; ma via via più forte,
più presto, i fogli contro i fogli avventa.

Sosta... Trovò? Non gemono le porte
più, tutto oscilla in un silenzio austero.
Legge?... Un istante; e volta le contorte

pagine, e torna ad inseguire il vero.

III
E sfoglia ancora; al vespro, che da nere
nubi rosseggia; tra un errar di tuoni,
tra un alïare come di chimere.

E sfoglia ancora, mentre i padiglioni
tumidi al vento l'ombra tende, e viene
con le deserte costellazïoni

la sacra notte. Ancora e sempre: bene
io n'odo il crepito arido tra canti
lunghi nel cielo come di sirene.

Sempre. Io lo sento, tra le voci erranti,
invisibile, là, come il pensiero,
che sfoglia, avanti indietro, indietro avanti,

sotto le stelle, il libro del mistero.


(scelta da Nicole B. e Niccolò B.)

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IL PREMIO DEL CANTO
(da Il fanciullino)

A te né le gemme né gli ori
fornisco, o dolce ospite: è vero;
ma fo che ti bastino i fiori
che cogli nel verde sentiero,
nel muro, su le umide crepe,
su l'ispida siepe.

Non reco al tuo desco lo spicchio
fumante di pingue vitella;
ma fo che ti piaccia il radicchio
non senza la tua selvastrella,
con l'ovo che a te mattutina
cantò la gallina.

Per me tu non ari, o poeta,
né vigne sassose, né grasse
maggesi; ma dimmi se più
di vigne e maggesi s'allieta
quel cupo signore, od il passero
garrulo e tu!

Non fragili coppe di Cina,
la lampada d'oro t'irradia;
ma tu la tua scabra cucina
tu ami e la provvida madia;
la fiamma che lustra, tu ami,
sui nitidi rami.

Non hai che dal ciglio ti penda,
né paggio né florida ancella;
ma lieta, ma grata sfaccenda
per te la tua dolce sorella;
che cinge il grembiule, e sorride;
lo scinge e s'asside

con te...E per letto di morte,
che a tutti è sì duro e sì grave,
che cosa ti serbo, sai tu?
Oh! Rose per letto di morte,
cadute dal pruno: il soave
dolore che fu!


(scelta da Letizia C.)

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L’AQUILONE
(da Primi poemetti)

I
C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d'antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.

Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle quercie agita il vento.

Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle, e visita le chiese
di campagna, ch'erbose hanno le soglie:

un'aria d'altro luogo e d'altro mese
e d'altra vita: un'aria celestina
che regga molte bianche ali sospese...

sì, gli aquiloni! È questa una mattina
che non c'è scuola. Siamo usciti a schiera
tra le siepi di rovo e d'albaspina.

Le siepi erano brulle, irte; ma c'era
d'autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera

bianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre del fosso.

Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.

Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza.

S'inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.

S'inalza; e i piedi trepidi e l'anelo
petto del bimbo e l'avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.

Più su, più su: già come un punto brilla
lassù lassù... Ma ecco una ventata
di sbieco, ecco uno strillo alto... - Chi strilla?

Sono le voci della camerata
mia: le conosco tutte all'improvviso,
una dolce, una acuta, una velata...

A uno a uno tutti vi ravviso,
o miei compagni! e te, sì, che abbandoni
su l'omero il pallor muto del viso.

Sì: dissi sopra te l'orazïoni,
e piansi: eppur, felice te che al vento
non vedesti cader che gli aquiloni!

Tu eri tutto bianco, io mi rammento.
solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento.

Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso, stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi!

Oh! dolcemente, so ben io, si muore
la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi pètali un fiore

ancora in boccia! O morto giovinetto,
anch'io presto verrò sotto le zolle
là dove dormi placido e soletto...

Meglio venirci ansante, roseo, molle
di sudor, come dopo una gioconda
corsa di gara per salire un colle!

Meglio venirci con la testa bionda,
che poi che fredda giacque sul guanciale,
ti pettinò co' bei capelli a onda

tua madre... adagio, per non farti male.


(scelta da Niccolò F. e Luca F.)

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TEMPORALE
(da Myricae)

Un bubbolio lontano...

Rosseggia l'orizzonte,
come affocato, a mare;
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un'ala di gabbiano.


(scelta da Elia L. e Alessandro)

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LA GUAZZA
(da Canti di Castelvecchio)

Laggiù, nella notte, tra scosse
d'un lento sonaglio, uno scalpito
è fermo. Non anco son rosse
        le cime dell'Alpi.

Nel cielo d'un languido azzurro,
le stelle si sbiancano appena:
si sente un confuso sussurro
        nell'aria serena.

Chi passa per tacite strade?
Chi parla da tacite soglie?
Nessuno. È la guazza che cade
        sopr'aride foglie.

Si parte, ch'è ora, né giorno,
sbarrando le vane pupille;
si parte tra un murmure intorno
        di piccole stille.

In mezzo alle tenebre sole,
qualcuna riluce un minuto;
riflette il tuo Sole, o mio Sole:
        qpoi cade: ha veduto.

(scelta da Filippo F. e Mattia P.)

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NELLA NEBBIA
(da Primi poemetti)

E guardai nella valle: era sparito
tutto! sommerso! Era un gran mare piano,
grigio, senz'onde, senza lidi, unito.

E c'era appena, qua e là, lo strano
vocìo di gridi piccoli e selvaggi:
uccelli spersi per quel mondo vano.

E alto, in cielo, scheletri di faggi,
come sospesi, e sogni di rovine
e di silenzïosi eremitaggi.

Ed un cane uggiolava senza fine,
né seppi donde, forse a certe péste
che sentii, né lontane né vicine;

eco di péste né tarde né preste,
alterne, eterne. E io laggiù guardai:
nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste.

Chiesero i sogni di rovine: - Mai
non giungerà? - Gli scheletri di piante
chiesero: - E tu chi sei, che sempre vai? -

Io, forse, un'ombra vidi, un'ombra errante
con sopra il capo un largo fascio. Vidi,
e più non vidi, nello stesso istante.

Sentii soltanto gl'inquïeti gridi
d'uccelli spersi, l'uggiolar del cane,
e, per il mar senz'onde e senza lidi,

le péste né vicine né lontane.


(scelta da Anna C. e Anita M.)

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LA PARTENZA DEL BOSCAIOLO
(da Canti di Castelvecchio)

I
La scure prendi su, Lombardo,
da Fiumalbo e Frassinoro!
Il vento ha già spiumato il cardo,
fruga la tua barba d'oro.
Lombardo, prendi su la scure,
da Civago e da Cerù:
è tempo di passar l'alture:
tient'a su! tient'a su! tient'a su!

II
Più fondo scavano le talpe
nelle prata in cui già brina.
E` tempo che tu passi l'Alpe,
ché la neve s'avvicina.
Le talpe scavano più fondo.
Vanno più alte le gru.
Fa come queste, e va pel mondo:
tient'a su! tient'a su! tient'a su!

III
Per le faggete e l'abetine,
dalle fratte e dal ruscello,
quel canto suona senza fine,
chiaro come un campanello.
Per l'abetine e le faggete
canta, ogni ora ogni dì più,
la cinciallegra, e ti ripete:
tient'a su! tient'a su! tient'a su!

IV
Di bosco è come te, la cincia:
campa su la macchia anch'essa.
Sa che, col verno che comincia,
ti finisce la rimessa.
La cincia è come te, di bosco:
sa che pane non n'hai più.
Va dove n'ha rimesso il Tosco:
tient'a su! tient'a su! tient'a su!

V
Le gemme qua e là col becco
picchia: anch'essa è taglialegna.
Nel bosco è un picchierellar secco
della cincia che t'insegna.
Col becco qua e là le gemme
picchia al mo' che picchi tu.
Va, taglialegna, alle maremme...
tient'a su! tient'a su! tient'a su!

VI
Ha il nido qua e là nei buchi
d'ischie o d'olmi, ove gli garba;
e pensa forse a que' tuoi duchi,
grandi, dalla lunga barba.
Nei buchi erbiti dove ha il nido,
pensa al gran tempo che fu;
e getta ancora il vecchio grido:
tient'a su! tient'a su! tient'a su!

VII
Un'azza è quella con cui squadri
là, nel verno, il pino e il cerro;
con cui picchiavano i tuoi padri
sopra i grandi elmi di ferro.
Tu squadri i tronchi, ora; con l'azza
butti le foreste giù.
Va ora senza più corazza...
tient'a su! tient'a su! tient'a su!

VIII
Rimane nella valle il canto.
Sono ormai, le cincie, sole.
La scure dei lombardi intanto
lassù brilla contro al sole.
E sempre il canto che rimane,
giunge in alto alla tribù,
che parte a guadagnarsi il pane:
tient'a su! tient'a su! tient'a su!

(scelta da Nicola G.)

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IL GELSOMINO NOTTURNO
(da Canti di Castelvecchio)

E s'aprono i fiori notturni,
nell'ora che penso a' miei cari.
    Sono apparse in mezzo ai viburni
    le farfalle crepuscolari. 

Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
    Sotto l'ali dormono i nidi,
    come gli occhi sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala
l'odore di fragole rosse.
    Splende un lume là nella sala.
    Nasce l'erba sopra le fosse.

Un'ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
    La Chioccetta per l'aia azzurra
    va col suo pigolio di stelle.

Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
    Passa il lume su per la scala;
    brilla al primo piano: s'è spento . . .

È l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
    dentro l'urna molle e segreta,
    non so che felicità nuova. 
(scelta da Eleonora P. e Maddalena M.)

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ADDIO!
(da Canti di Castelvecchio)

Dunque, rondini rondini, addio!

Dunque andate, dunque ci lasciate
per paesi tanto a noi lontani.
È finita qui la rossa estate.
Appassisce l'orto: i miei gerani
    più non hanno che i becchi di gru.

Dunque, rondini rondini, addio!

Il rosaio qui non fa più rose.
Lungo il Nilo voi le rivedrete.
Volerete sopra le mimose
della Khala, dentro le ulivete
    del solingo Achilleo di Corfù.

Oh! se, rondini rondini, anch'io. . .

Voi cantate forse morti eroi,
su quest'albe, dalle vostre altane,
quando ascolto voi parlar tra voi
nella vostra lingua di gitane,
    una lingua che più non si sa.

Oh! se, rondini rondini, anch'io . . .

O son forse gli ultimi consigli
ai piccini per il lungo volo.
Rampicati stanno al muro i figli
che al lor nido con un grido solo
    si rivolgono a dire: Si va?

Dunque, rondini rondini, addio!

Non saranno quelle che le case
han murato questo marzo scorso,
che a rifarne forse le cimase
strisceranno sopra il Rio dell'Orso,
    che rugliava, e non mormora più.

Dunque, rondini rondini, addio!

Ma saranno pur gli stessi voli;
ma saranno pur gli stessi gridi;
quella gioia, per gli stessi soli;
quell'amore, negli stessi nidi:
    risarà tutto quello che fu.

Oh! se, rondini rondini, anch'io. . .

io li avessi quattro rondinotti
dentro questo nido mio di sassi!
ch'io vegliassi nelle dolci notti,
che in un mesto giorno abbandonassi
    alla libera serenità!

Oh! se, rondini rondini, anch'io . . .

rivolando su le vite loro,
ritrovando l'alba del mio giorno,
rimurassi sempre il mio lavoro,
ricantassi sempre il mio ritorno,
    mio ritorno dal mondo di là!

(scelta da Silvia P.)

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LA BICICLETTA
(da Canti di Castelvecchio)

                   I
Mi parve d'udir nella siepe
la sveglia d'un querulo implume.
Un attimo… Intesi lo strepere
         cupo del fiume. 

Mi parve di scorgere un mare
dorato di tremule messi.
Un battito… Vidi un filare
         di neri cipressi.

Mi parve di fendere il pianto
d'un lungo corteo di dolore.
Un palpito… M'erano accanto
         le nozze e l'amore.
              dlin… dlin…
                   II
Ancora echeggiavano i gridi
dell'innominabile folla;
che udivo stridire gli acrìdi
         su l'umida zolla.

Mi disse parole sue brevi
qualcuno che arava nel piano:
tu, quando risposi, tenevi
         la falce alla mano.

Io dissi un'alata parola,
fuggevole vergine, a te;
la intese una vecchia che sola
         parlava con sé.
              dlin... dlin…
                   III
Mia terra, mia labile strada,
sei tu che trascorri o son io ?
Che importa? Ch'io venga o tu vada,
         non è che un addio!

Ma bello è quest'impeto d'ala,
ma grata è l'ebbrezza del giorno.
Pur dolce è il riposo… Già cala
         la notte: io ritorno.

La piccola lampada brilla
per mezzo all'oscura città.
Più lenta la piccola squilla
         dà un palpito, e va…
              dlin… dlin...


(scelta da Jacopo B.)

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LA QUERCIA CADUTA
(da Primi poemetti)
Dov'era l'ombra, or sè la quercia spande
morta, né più coi turbini tenzona.
La gente dice: Or vedo: era pur grande!

Pendono qua e là dalla corona
i nidietti della primavera.
Dice la gente: Or vedo: era pur buona!

Ognuno loda, ognuno taglia. A sera
ognuno col suo grave fascio va.
Nell'aria, un pianto... d'una capinera

che cerca il nido che non troverà.



(scelta da Filippo F. e Mattia P.)

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LA CAVALLA STORNA
(da Canti di Castelvecchio)

Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
                      
I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.
                                                         
Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;

che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.

Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:

« O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;

il primo d'otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.

Tu che ti senti ai fianchi l'uragano,
tu dai retta alla sua piccola mano.

Tu c'hai nel cuore la marina brulla,
tu dai retta alla sua voce fanciulla».

La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:

« O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

lo so, lo so, che tu l'amavi forte!
Con lui c'eri tu sola e la sua morte.

O nata in selve tra l'ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;

sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:

adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l'agonia… »

La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.

«O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

oh! due parole egli dové pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.

Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,

con negli orecchi l'eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:

lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole».

Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l'abbraccio' su la criniera.

« O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!

a me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona… Ma parlar non sai!

Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!

Tu l'hai veduto l'uomo che l'uccise:
esso t'è qui nelle pupille fise.

Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t'insegni, come».

Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.

La paglia non battean con l'unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.

Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome . . . Sonò alto un nitrito.

 (scelta da Marta D e Valeria P.)

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