domenica 18 novembre 2012

Nuovo presidente cinese

POSTATO dal prof d’italiano:

Forse in Cina sta cambiando qualcosa. Per chi ne è interessato, questi 2 articoli pubblicati su la Repubblica, il primo il 14 novembre, il secondo il 16 novembre 2012.

Xi Jinping è il più innovatore tra i conservatori. Le riforme che potrebbe avviare fanno paura al comitato centrale del partito. Che, per questo, l’ha blindato
Il Gorbaciov cinese

Di Giampaolo Visetti
PECHINO - Per il compagno Hu Jintao oggi è il giorno del congedo, l'attimo sospeso di massimo pericolo per un regime in cui l'uscita di scena non risulta sul copione. Mao Zedong morì imperatore. Deng Xiaoping impose la pensione a settant'anni, prima di essere risucchiato da comandante in capo nella tragedia di piazza Tienanmen. Jiang Zemin, privo di eredi, rimase segretario un anno di più e altri due al vertice delle forze armate: era il primo leader cinese a non aver fatto la rivoluzione, il primo privo del carisma per nominare il proprio successore. Ora tocca a Hu, il vuoto vestito di grigio, e per la prima volta la Cina prova ad essere un autoritarismo perbene. Le regole non ci sono, ma il partito-Stato le seguirà e il "principe rosso" Xi Jinping allo scoccare della mezzanotte entrerà da imperatore nella Città Proibita. Il 18° Congresso, che si chiude oggi a Pechino, è stato un' impressionante esibizione di ciò che è costretta ad essere una dittatura capitalista di successo al tempo dei social media. Capitale blindata, vietato portarsi in giro palline da ping pong, internet sotto sequestro, piccioni chiusi in gabbia e seconda economia del mondo in ostaggio di censura e propaganda. A giornali e tivù è stato ordinato di dare solo notizie entusiasmanti e di glorificare il «decennio d'oro» dello «sviluppo scientifico» di Hu Jintao e del premier Wen Jiabao. A seguire «l' evento politico più importante del decennio», 1.700 giornalisti di tutto il mondo. È chiaro che con branchi di cronisti gonfi di thé, sono necessarie conferenze stampa quotidiane. Il problema è che nessuno tra i 2.270 delegati del Congresso aveva il permesso di parlare. Qualcuno ha risposto leggendo pezzi del discorso d'addio di Hu Jintao: «Seguiremo i temi approvati dal partito per promuovere le riforme». Altri hanno pregato di non fare domande. Altri ancora si erano fatti approvare due righe da leggere: «Sono il segretario del partito di Tianjin. Le mie responsabilità sono di studiare seriamente e di discutere lo spirito...». Ai delegati selezionati per i video, sono state poste domande preparate che potevano dare l'illusione di una polemica: «Signor zio, le merendine si possono mangiare tranquillamente vero?». È su questa terrificante prova di autocontrollo collettivo, senza che uno solo degli 1,4 miliardi di cinesi sia riuscito ad avvicinarsi al mausoleo di Mao con un foglietto di blandissima protesta, che irrompono oggi il leader del futuro, la quinta generazione dei comunisti di mercato e i funzionari in Audi nera che già si preparano a comandare, dal 2022 al 2032, quella che sarà la prima potenza del pianeta. E se il Congresso, come da statuto, non poteva assumere alcuna decisione, limitandosi a ratificare le promozioni decise dai capi a riposo, gli interminabili interventi del Comitato centrale hanno eretto al contrario un'invalicabile «Grande Muraglia»: l'incubo contemporaneo della Cina è che da domani il misterioso Xi Jinping, conservatore progressista, cominci a rivelarsi un «nuovo Gorbaciov». Alla vigilia dell'annuncio che vale assai più di Barack Obama alla Casa Bianca, ossia dei nove o sette nomi a cui per i prossimi dieci anni l'umanità chiede di tenere acceso il motore della crescita, il sinistro marchio «nuovo Gorbaciov» è risultato pubblicamente impronunciabile, ma ha segnato il dietro le quinte della lotta più spietata per il potere che la Cina abbia subìto dalla dipartita del Grande Timoniere. Poche ore e tutti sapranno fino a che punto Hu Jintao verrà umiliato, perdendo subito anche la presidenza della Commissione militare centrale, se Wen Jiabao, travolto dalla parentopoli di famiglia, farà la fine di Bo Xilai, epurato con l'accusa di essere l'ultimo maoista del Paese. Se hanno prevalso gli appetiti tradizionali dei "principi rossi" o gli affari più sofisticati della Lega della Gioventù comunista, i titoli della Borsa di Shanghai o gli appalti lungo gli anelli di Pechino, i cosiddetti riformisti o gli autocertificati conservatori. Dopo sessantatrè anni di socialismo militarizzato tutto può perfino essere tollerato, se non minaccia la stagnazione dell'apparato: tutto ma non un enigmatico gigante bonaccione, coniugato con una star del folk, che si metta in testa di passare alla storia come il Gorbaciov dell'Asia, scatenando la rivoluzione dall'alto per trasformare la Cina in una replica dell' Occidente. Momenti storici e situazioni interne non paragonabili, tra Mosca e Pechino. Ma dentro un'oligarchia legittimata dall'obbedienza del partito e dalla fedeltà dell'esercito, e non da un libero mandato popolare, il rischio di una "svolta democratica" capace di calmare una popolazione sempre più indignata da corruzione del potere e disparità tra ricchi e poveri, è lo spettro con cui il Congresso è stato costretto a confrontarsi. L'ultimo discorso di Hu Jintao da segretario generale, auto-difesa di tutta la nomenclatura rossa, è stato il manifesto dell'anti-perestrojka cinese: partito unico in eterno, no all'imitazione dell'America, consolidamento dell'economia di Stato, ma pure via libera al mercato, obbligo di raddoppio del Pil e benessere per tutti. Come se Pechino volesse segnalare che oggi sarebbe più conveniente se Usa e Ue si cinesizzassero almeno un po', piuttosto che vedere una Cina tardivamente contagiata dalla sindrome dell'Urss. I candidati scelti ieri per il Comitato centrale, che elegge oggi i venticinque del Politburo, gli immortali del Comitato permanente e i dodici intoccabili della Commissione militare centrale, hanno fatto il possibile per mettersi al riparo da quella che le autorità definiscono putinianamente «una catastrofe». L' americano Bo Xilai, neo-profeta del leaderismo mediatico etichettato come nostalgico della canzoni proletarie, è al sicuro e in attesa di processo. Xi Jinping può così prendere le redini del partito a vent'anni dalla morte del padre, epurato e riabilitato eroe della rivoluzione, sotto la tutela dei generali e grazie alla garanzia dell'ottantaseienne Jiang Zemin. «Primus inter pares», è stato cinturato da un collegio cardinalizio a prova di sorprese: parola d'ordine «stabilità». Solo l'avvocato Li Keqiang, premier dal prossimo marzo e unico superstite della banda di Hu, è accreditato di accettabili dosi di riformismo, almeno economico. Congelato il sistema, il leader uscente dovrebbe dunque annunciare oggi anche il suo clamoroso addio alle armi, dimettendosi contemporaneamente da esercito e partito, per la prima volta nella storia cinese, a riprova di quanto Pechino sia in allarme per la sicurezza interna e per i venti di guerra che soffiano tra i vicini di casa e sul Pacifico. «La situazione globale - ha confidato un delegato che ha passato la selezione per il Comitato centrale - non consiglia alla Cina di restare, come in passato, un paio d'anni con due centri di potere». Stop al gorbaciovismo confuciano, ma scelte nette: percentuali maggiori di «democrazia interna al partito», una sorta di "primarie" chiuse e riservate per selezionare i leader del futuro, test elettorali nei villaggi, sondaggi popolari preventivi per stabilire il livello di opposizione di massa alle grandi opere e target predefiniti per la crescita del Pil. Altrettanto insuperabili, almeno per due generazioni, i quattro no affidati da oggi a Xi Jinping: no al multipartitismo elettorale, no a indipendenza o autonomia per le regioni ribelli di Tibet storico e Xinjiang, no al riconoscimento dei crimini di Mao e del massacro di piazza Tienanmen, no alla libertà di espressione e alla liberazione dei dissidenti. Il vecchio sovrano Hu Jintao esce oggi di scena con la mesta dignità nazionale di chi si è limitato a non sperperare il patrimonio di famiglia. Il nuovo imperatore Xi Jinping sale oggi sul trono della Cina con il trionfante mandato globale di riformarla per non cambiarla: di seppellire Lenin e Mao, ma senza diventare Gorbaciov.



Cina, via falce e martello
Inizia l' era di Xi Jinping

Di Giampaolo Visetti
PECHINO - Se al suo fianco ci fosse stata Peng Liyuan, moglie cantante e generale, la Cina avrebbe sperato e temuto di assistere all'esordio di un'altra rivoluzione e di aver definitivamente contratto il virus dell'America. Xi Jinping, presidente il prossimo marzo, ha assunto i pieni poteri del Paese, ma a questo dettaglio solo i riformisti sconfitti del 18° Congresso hanno badato. Perché la Cina e il resto del mondo hanno assistito ieri a un evento straordinario. Sul palco prossimo alla Grande sala del popolo è salita infatti l'immagine di ciò che nei prossimi dieci anni la seconda economia del pianeta è decisa a diventare. Programma: primo discorso del nuovo segretario generale del partito comunista. I leader di Pechino sono sempre stati la replica dei monarchi rossi di Pyongyang: robotici, inespressivi e muti, una mano paralizzata a salutare il vuoto. Nel palazzo affacciato su piazza Tienanmen, è invece atterrata ieri quella che ai cinesi è sembrata l'incarnazione di un extraterrestre, il fantasma di Barack Obama imprigionato nel sosia di Mao Zedong. Il nuovo imperatore della Cina non ha detto nulla di diverso dal discorso d'addio di Hu Jintao. Ma il "come" ha deciso di essere, ha reso evidente che il "principe rosso" scelto per trasformare la nazione nella superpotenza del secolo, non si accontenterà di fare due passi nella Città Proibita. Alla testa degli altri promossi nel comitato permanente del Politburo, Xi Jinping non ha mai smesso di sorridere, ha presentato i sei compagni, si è scusato del ritardo e ha assunto gli impegni attesi con la noncuranza attenta che tradisce la certezza di una parola che verrà mantenuta. Dietro di lui sono scomparse bandiere rosse e la grande falce con martello, coreografia di Hu Jintao. Xi ha parlato davanti a un enorme quadro con montagne e cascate d'acqua. Capelli tinti e imparruccati di nero, come tutti i funzionari, ma il suo modo di indossare la nuova divisa dell'autorità, vestito blu, camicia bianca e cravatta rossa, è stata la prima lezione di "riforma del sistema politico" a cui la Cina abbia assistito. Colletto storto, nodo della cravatta troppo stretto, giacca larga, busto di traverso: ha parlato a braccio , usando con fiducia anche le parole logore contro la corruzione e non ha nascosto il bisogno di un contatto emotivo con compatrioti e stranieri che lo stavano ascoltando. Sul trono del partito-Stato è salito cioè un leader contemporaneo fedele all'ortodossia di Deng Xiaoping, ma che trasmette l'attrazione per il mondo che si estende oltre la Grande Muraglia. Le telecamere non smettevano di riprendere la nuova icona politica dell'intreccio globale: manifesto di un'ambizione e riscatto di una biografia, ma prima di tutto l'annuncio che in Cina il vento sta cambiando. Senza sorprese il resto. Il 18° Congresso ha pensionato il 50% dei funzionari e aperto a una generazione nuova di dirigenti. Il comitato centrale è andato ai "principi rossi", che hanno prevalso sugli allievi della Lega della gioventù comunista. Gli autodichiarati conservatori hanno polverizzato chi si definisce riformista. Stop a "grandi balzi in avanti". Nel Comitato permanente, ridotto da nove a sette posti per dare meno noia a Xi Jinping, sono entrati i protetti dei grandi vecchi del partito e del redivivo Jiang Zemin. Li Keqiang, unico discepolo di Hu Jintao, succederà all'emarginato Wen Jiabao come premier. Nella stanza dei bottoni: Zhang Dejiang, sostituto dell'epurato Bo Xilai a Chongqing, Yu Zhengsheng, capo di Shanghai, Liu Yunshan, architetto di censura e propaganda, Wang Qishan, esperto di finanza eletto sceriffo anti-corruzione, e Zhang Gaoli, segretario di Tianjine grande sponsor degli investimenti stranieri. A comandare gli interessi di Pechino, Tianjin, Shanghai e Chongqing, più un uomo dei conti e uno della sicurezza. Solo nel Politburo i sovraesposti Wang Yang, profeta del Guangdong, e Liu Yandong, che non sarà la prima donna tra gli "immortali" del partito. In pensione gli altri big, seguiti presto da Zhou Xiaochuan, governatore della banca centrale. Hu Jintao è stato anche costretto a lasciare subito a Xi Jinping la guida della Commissione militare centrale. Significa che una Cina con l'economia in affanno non può permettersi due centri di potere e che la corsa al riarmo, nel Pacifico, è una priorità. Così quando il nuovo ad della globalizzazione in crisi si è avviato verso l'uscita del palazzo, ognuno ha avvertito quanto questa montagna di potere, quel mostro asiatico definito comunismo di mercato, gli stiano stretti. Nessuno sa da dove, né come e per quale fine si sia scatenata l'ascesa di Xi Jinping, vaticinata dalla famosa t-shirt di "Obamao". Però da ieri è certo che tra dieci anni in Cina poche cose saranno come oggi appaiono. Immobili, ma avanti. Poche certezze: molte, molte, molte speranze.

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