lunedì 12 dicembre 2011

La fabbrica del razzismo

POSTATO dal prof d’italiano:

Due interessanti articoli (pubblicati su la Repubblica il 27 novembre 2011) sull’esibizione dei “selvaggi”, che fu una prima forma di razzismo.


L’Europa in fila davanti alle gabbie del buon selvaggio
di Laura Putti
PARIGI – Considerandola una cosa del tutto normale per quei tempi, si misero in fila. I tempi erano esattamente tra il 1850, forse anche prima, e il 1930, forse anche dopo. La fila raggiunse il miliardo e quattrocentomila persone, forse anche di più. Erano i “civilissimi” europei che si affollavano felici tra i recinti, le gabbie, i palcoscenici nei quali erano confinati uomini e donne come loro, ma con un diverso colore della pelle. Erano bambini tedeschi, francesi, americani che si divertivano nei circhi o alle feste di piazza vedendo la donna barbuta, lo zulù scatenato, Toro Seduto e Geronimo impegnati in danze e spettacoli. Erano uomini e donne che guardavano altri uomini e donne chiusi negli zoo umani. «Il pregiudizio viene da lontano», dice Liliam Thuram, leggenda del calcio italiano e mondiale, che dal 2008 presiede la Fondation education contre le racisme. Oggi Thuram parla in veste di commissario generale de L’invention du sauvage (L’invenzione del selvaggio) che da martedì 29 novembre fino al 3 giugno, al Musée del Quai Branly, a Parigi, racconterà attraverso più di cinquecento tra oggetti, fotografie, filmati e documenti la costruzione del “diverso”, quindi la nascita del razzismo.
Tra la fine del Quindicesimo secolo e l’inizio del Sedicesimo l’Occidente inventa “il selvaggio”. Uomini e donne venuti dall’Asia, dall’Africa e dall’Oceania intrattengono le corti reali. Sono “bottini umani” portati dagli esploratori, uomini che tengono al laccio elefanti e giraffe, e che finiscono per diventare animali essi stessi.
Già nel 1550 gli indiani della tribù Tupinampa sfilavano a Rouen davanti a Enrico II. Il successo fu immenso, la gente accorreva, qualcuno fiutò l’affare. Nacquero così gli “zoo umani”, le fiere, i circhi, i freak show (nel 1932, sui deformi, l’americano Tod Browning girerà proprio Freaks, divenuto film cult); i selvaggi, gli uomini esotici, vengono mostrati alle Esposizioni universali e coloniali. Gli zulù a Londra, gli aborigeni a Parigi, i circhi Barnum e Bailey negli Stati Uniti. La diversità diventa spettacolo, e il “selvaggio” la garanzia di un tutto esaurito. Inizia il razzismo scientifico con un esempio per tutti: la “Venere ottentotta” dal sesso smisurato (raccontata dal bel film Venere nera di Kechiche) è prima sfruttata da un sudafricano come lei (ma bianco); poi, morta di stenti e sifilide, sezionata e il suo calco di gesso esposto al pubblico.
«Quando nell’Ottocento la gente vedeva queste persone, usciva dagli zoo umani pensando di avere davvero visto “il selvaggio”», dice Thuram, che per due anni, accanto ai commissari scientifici, gli antropologi Pascal Blanchard e Nanette Jacomijn Snoep, ha lavorato alla mostra. «Abbiamo raccolto fotografie dell’epoca, ma anche le cartoline dei “selvaggi” molto alla moda, manifesti dei circhi e degli spettacoli, pupazzi animati, calchi di gesso, filmati. Il razzismo si formava non solo davanti ai recinti, ma anche attraverso quadri bellissimi, manifesti graficamente splendidi, richiami irresistibili». E Thuram, uomo di origine africana, si è mai commosso, o irritato, davanti a questi oggetti? «Alcune cose mi hanno colpito. La prima è l’ingresso dell’Hagenbeck Zoo ad Amburgo: attorno alla porta ci sono foto di animali e uomini venuti da Africa, Asia e Oceania, messi allo stesso livello. Le hanno lasciate lì, nessuno ci fa caso. Poi la storia di un uomo africano microcefalo presentato con il nome di “What is it?”, “che roba è?”, come l’anello mancante tra l’orango e l’uomo. Ma anche due deliziosi sottobicchieri: nel primo vedi un bambino bianco che dà un pezzo di cioccolato a un bambino nero chiuso in un recinto; nell’altro lo stesso bambino bianco dà una mela a un elefante. Ma nella mostra non ci sono colpevoli e vittime: c’è solo la Storia».


Uomini e zoo – La fabbrica del razzismo
di Siegmund Ginzberg
Si è cominciato molto presto a “inventare” il selvaggio, e a esibirlo, farne spettacolo. A farne oggetto di curiosità morbosa, di sfogo alle fantasie più inconfessabili, specie quelle sessuali. A ingigantire il “diverso”, lo “strano”, il “mostruoso”. A farne il ricettacolo delle convenienze propagandistiche del momento, delle paure e, insieme, dei desideri proibiti. Da quando gli antichi egiziani esibivano i “nani neri” provenienti dal Basso Nilo, il Medioevo esibì i propri “mostri”, “esseri difformi” nelle fiere, Juan Bosch i suoi incubi impareggiabili nei dipinti, Cristoforo Colombo e poi conquistadores e pirati riempirono le corti europee con gli strani campioni di umanità strappati al Nuovo Mondo, filosofi e scrittori di viaggi suscitavano brividi nei loro lettori con i racconti sui “cannibali”. Ma solo nell’Ottocento e nel primo Novecento l’esibizione del selvaggio e del diverso avrebbero assunto dimensioni industriali.
Ne dà conto, in modo enciclopedico, l’esposizione parigina L’invention du sauvage, accompagnata da un catalogo imponente, ricchissimo di documentazione iconografica, cui hanno collaborato oltre settanta specialisti. «Zoo umani», il sottotitolo, è un termine coniato da Desmond Morris negli anni Sessanta per descrivere la condizione dell’uomo moderno che, costretto a vivere nella «giungla di cemento» della città come un animale in gabbia, svilupperebbe comportamenti animaleschi legati a questa sua condizione di cattività. Nel contesto dell’esposizione parigina il riferimento è invece agli oltre 35mila esseri umani “esotici” o “anomali” che dal 1800 a metà 1900 furono esibiti come animali allo zoo, talvolta letteralmente in gabbia.
Erano spettacoli da circo o da baraccone, sapientemente messi in scena e coreografati da impresari specializzati nello stupire ed eccitare il pubblico, sollecitarne il voyeurismo. Pioniere in Americano era stato P. T. Barnum, quello del famigerato Circo. Pioniere in Europa fu invece il pescivendolo amburghese Carl Hagenbeck, che dopo aver rifornito gli zoo di animali si mise ad esibire indigeni samoiedi o samoani. Il freak show, l’esibizione del mostro, dello scherzo di natura, e la performance con brivido dei “selvaggi autentici” erano le due facce della stessa medagli. Si misero in scena gemelli siamesi, donne e bambini pelosi, uomini-leone e uomini-elefante. Tra 1800 e 1815 grandi folle accorsero a Londra e a Parigi ad ammirare, sbirciare, misurare, persino toccare eccitati le forme ipertrofiche della povera “Venere ottentotta”. Così come la gente correva a vedere gli Indiani di Buffalo Bill (che almeno erano pagati). L’imbroglio degli imbonitori faceva parte del gioco. Andarono in scena anche uno “spaventoso guerriero del Dahomey”, che invece veniva dal North Carolina, dei “cacciatori di teste del Borneo”, cresciuti però in una fattoria dell’Ohio, persino bianchi trasformati in cannibali del continente nero con una mano di vernice.
La messa in mostra del selvaggio si ammantò presto di razzismo scientifico, prima ancora di dar man forte al razzismo popolare. Poi si trasformò in esibizione della prodezza civilizzatrice coloniale. Tutte le grandi Esposizioni internazionali avevano il loro villaggio indigeno fasullo, con centinaia di “selvaggi” in carne e ossa in mostra. L’Esposizione universale di Parigi del 1889 fu visitata da 32 milioni di persone, quella del 1900 da oltre cinquanta milioni. A Chicago accorsero nel 1893 in 27 milioni a vedere eschimesi impellicciati, “amazzoni” a seno nudo e il “villaggio algerino” con tanto di danza del ventre. A Glasgow nel 1888 erano stati quasi in sei milioni ad accorrere per guardare bayadere e fakiri. Sono già cifre da audience tv, prima ancora che si potessero immaginare la televisione, le veline, le abbondanze anatomiche in prime time e il Grande fratello o L’isola dei famosi. Ma il selvaggio di massa che si crede civilizzato cominciava già a rispecchiarsi in quello esotico e immaginario.
Anche l’Italia fece la sua parte. Si era cominciato a Torino a esibire, nel quadro dell’Esposizione generale del 1884, i cosiddetti “assabesi” dell’Eritrea, dancali provenienti dal retroterra della Baia di Assab. Seguirono ricostruzione con selvaggi “autentici” a Palermo nel 1892 e di una “Cairo”, ovviamente fasulla, a Milano nel 1906. furono portati per divertimento “selvaggi” persino al Quirinale, ma qualcuno di loro morì prima di allietare la famiglia reale. Seguirono i tempi di Faccetta nera.
Poi questo tipo di esposizione “etnica” cadde in disuso. Fino all’atroce replica del 23 giugno 1944 nel campo di concentramento di Theresienstadt (Terezin), a nord di Praga, quando rappresentanti della Croce rossa svizzera e danese furono invitati a visitare il “villaggio ebraico” gestito dalle SS, con tanto di aiuole fiorite, squadre di football, cori di bambini e orchestrine di musica classica e jazz. Per evitare una cattiva impressione di sovraffollamento, giusto alla vigilia dello spettacolo 17mila “ospiti” erano stati trasferiti ad Auschwitz.


Potete vedere un video in francese cliccando sul link :


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