POSTATO dal prof d’italiano:
A completamento della giornata della Protezione Civile svoltasi questa mattina, leggete questi articoli pubblicati da la Repubblica. Il primo è del 14 novembre 2012.
Piove di più, nessuno cura i fiumi
così il maltempo diventa una tragedia
di Elena Dusi
È una tempesta perfetta. Le piogge si intensificano, la porzione di territorio urbanizzato in Italia guadagna ogni anno l'equivalente di due città di Roma, i fiumi vengono costretti negli argini perché non straripino, i loro sedimenti si accumulano nell'alveo e sollevano il livello dell'acqua, aumentandone l'energia in caso di esondazione. Perfino i campi diventano più estesi e perdono i fossi di scolo che da sempre li circondavano. In Toscana e Liguria fiumi ripidi e letti piccoli moltiplicano il rischio in caso di acquazzoni. Nel frattempo le mappe del rischio restano ferme al passato, mentre le legislazioni fanno addirittura passi indietro. Il risultato? Oltre 120 frane e inondazioni tra il 2005 e il 2011, con 200 vittime e danni stimati sopra al miliardo all'anno (due volte e mezzo quanto si spende per la prevenzione). Il mix degli interventi con il contagocce e del rischio che aumenta (sia per il clima che per l'urbanizzazione) punta dritto verso un unico esito prevedibile: l'assicurazione obbligatoria, che ogni tanto si affaccia in una bozza di legge e che ieri è stata rievocata dal capo della Protezione civile. Il rischio idrogeologico in Italia è una tenaglia che stringe da molti lati. «Buona parte dell'urbanizzazione, soprattutto quella selvaggia, è avvenuta intorno agli anni '60 e '70, l 'epoca in cui la piovosità è stata ai minimi del secolo. Ponti, argini e case sono stati costruiti senza tenere conto del problema dell'acqua. Oggi ci ritroviamo con infrastrutture del tutto inadeguate» spiega Paolo Paronuzzi, direttore di un master sul rischio idrogeologico all' università di Udine. «Le fognature delle città non sono progettate per smaltire precipitazioni simili. A Genova i fiumi sono costretti in spazi angusti, o addirittura dirottati sottoterra. Se si gonfiano, cosa si può fare? Le uniche soluzioni che mi vengono in mente sono opere radicali, di portata paragonabile a quella del Mose a Venezia» dice Fausto Guzzetti, che al Cnr dirige l'Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica. «La legislazione del 1989 aggiunge Gian Vito Graziano, presidente del Consiglio nazionale dei geologi - divideva il territorio italiano in bacini idrografici, ognuno dei quali ricadeva sotto il controllo di un'autorità di bacino. Nel 2006 abbiamo recepito una direttiva europea che si occupa di ambiente in senso lato e dedica solo un capitolo al rischio idrogeologico. È una norma più adatta ai paesi con fiumi molto grandi. Il risultato in Italia è la frammentazione di competenze e responsabilità. Di fronte a una situazione di rischio non si sa nemmeno chi debba intervenire». Nel 2010 il Consiglio nazionale dei geologi ha pubblicato uno studio secondo cui 29.500 chilometri quadrati con quasi 6 milioni di abitanti sono ad alto rischio idrogeologico. La minaccia di frane o alluvioni riguarda 1,3 milioni di edifici, fra cui 6mila scuole e 531 ospedali. Dal dopoguerra i disastri idrogeologici sono costati 52 miliardi, una cifra che nell' ultimo ventennio è passata da 800 milioni medi annui a 1,2 miliardi. Secondo il ministero dell' Ambiente, per mettere in sicurezza tutto il territorio italiano servirebbero 40 miliardi.
Il secondo è del 15 novembre 2012.
Terre sommerse
di Carlo Petrini
Nelle Langhe, tutte le volte che pioveva molto, e per alcuni giorni di fila, si diceva che i contadini iniziassero a "portare l'acqua a spasso". Sulle colline e su qualsiasi altro terreno in pendenza gli agricoltori, armati di zappa, scavavano stretti e lunghi solchi pieni di curve: così aiutavano l'acqua a "camminare" per un po' prima che scendesse a valle. Una precauzione perché non acquisisse forza distruttiva, sia per le coltivazioni sia, a valanga e nei casi più gravi, per le costruzioni.
Torna questo frammento di memoria, che tanti anni fa sembrava più che altro un racconto colorito riferito alla civiltà contadina, ogni volta che in Italia un territorio va sott'acqua o un fiume esonda portando danni, tristezza e purtroppo morte. E viene da pensarci sempre più spesso, perché capita regolarmente ogni autunno da un po' di anni a questa parte, e molte volte anche a fine inverno. Per curiosità, basta controllare l'elenco delle alluvioni di una certa importanza avvenute in Italia, che si trova facilmente su internet.
Salta subito all'occhio come i fenomeni gravi in termini di danni materiali e di vite umane si siano molto intensificati a partire dal secondo dopo-guerra. Guardando quell'elenco, poi, si capisce che l'Italia è da sempre un Paese naturalmente soggetto a questi eventi, ma una tale escalation non è spiegabile se non con una riflessione riguardante la nostra cura per il territorio e i luoghi in cui viviamo.
Sarebbe forse troppo facile - ma anche poco serio senza un adeguato supporto scientifico - chiamare in causa il cambiamento climatico, anche perché i disastri legati al meteo si sono moltiplicati in tutto il mondo. Sicuramente qualcosa sta mutando nella prevedibilità e nella frequenza di fenomeni atmosferici eccezionali, è evidente, ma se guardiamo a come abbiamo trattato il nostro Paese negli ultimi due secoli, e maggiormente negli ultimi sessant'anni, non si può non pensare che siamo stati incauti, se non scellerati, nel depredarlo, abbandonarlo, coprirlo di cemento, nel costruire senza criteri preventivi rispetto a cataclismi cui ormai dovremmo essere un po' abituati, e anche preparati, da almeno qualche centinaio di anni.
Non ci vuole un genio per capire certe cause e non ci vorrebbe neanche un genio della politica per cercare di correre subito ai ripari. Un piano nazionale di messa in sicurezza del territorio italiano dovrebbe essere la priorità di qualsiasi governo, dovrebbe essere in qualsiasi programma elettorale, dovrebbe mettere d'accordo tutte le forze politiche. E invece no. Ogni autunno bisogna ricordare, di fronte a questi drammi, chi "portava l'acqua a spasso".
Parlare di civiltà agricola del passato non è irrispettoso, non è un caso o un esercizio trito da maniaci delle contadinerie. Studi storici ci spiegano che su un territorio geomorfologicamente fragile come il nostro abbiamo iniziato un paio di secoli fa con il disboscamento a tappeto delle aree collinari e montane.
Questo ha peggiorato molto la sicurezza dei terreni e reso più pericoloso il deflusso delle acque, ma quanto meno si era fatto spazio a un'agricoltura che era pur costretta a prendersi cura del territorio in maniera capillare e sistematica. Il tutto su base locale ma con una sapienza che quando in casi eccezionali doveva lamentare danni e perdite, almeno poteva inveire a ragione contro la malasorte, perché si era fatto tutto il possibile per prevenire.
Poi, con l'avvento dell'era industriale, l'inizio dell'irreparabile: prima l'abbandono delle zone più difficili da coltivare o dove mal si adattava l'agro-industria, illusoria portatrice di una troppo agognata modernità. Montagne, colline, aree considerate "arretrate" hanno visto arrivare il deserto umano, l'incuria, infine il tentativo molto problematico della Natura di riprendersi i suoi spazi.
Non smetto di ricordare ciò che ha detto una volta Tonino Guerra: «L'Italia non è più bella come una volta, è inutile che mi rompano le scatole, perché una volta c'era chi la curava. Non erano dieci persone messe lì e pagate dallo Stato, erano quelli che l'abitavano: i contadini».
Con l'abbandono di queste campagne si è rotto un equilibrio che è esploso a valle e nelle pianure con il boom edilizio e delle aree industriali: un'altra escalation direttamente proporzionale a quella dei disastri che ormai a torto continuiamo a chiamare "naturali". Abbiamo assistito a una cementificazione virale che, com'è stato più volte ricordato su queste pagine, non ha mai accennato a fermarsi, e negli ultimi trent'anni è anche peggiorata con 6 milioni di ettari di suolo fertile strappati al nostro Paese. Il tutto a fronte di dati che ci parlano di dieci milioni di case vuote, sfitte o inutilizzate. E non sindachiamo sulla qualità di queste costruzioni. Un disegno di legge per fermare il consumo di suolo, proposto dal ministro delle politiche agricole e forestali Mario Catania, è pronto ed è stato molto migliorato dalla Conferenza Stato-Regioni anche in base a richieste della società civile: voglio sperare che venga approvato celermente da questo governo entro i termini di scadenza della legislatura, a maggior ragione dopo i fatti degli ultimi giorni.
Continuando con la storia, invece, l'abbandono delle campagne è proseguito anche in pianura: i contadini sono diventati sempre meno e sempre più soli, alle prese con un'agricoltura industriale che bada al territorio (cioè lo sfrutta) soltanto nella misura in cui rappresenta un fattore produttivo, dunque senza attenzione per le opere che potrebbero avere un interesse per la collettività. Infine c'è stata anche la dismissione delle aree industriali: non posso non pensare a quegli spettri di territorio che sono diventati certi punti della Valle Bormida o che presto lo diventeranno, come il tarantino.
Quasi nessuno si prende più cura dell'Italia. Legambiente ha stimato nel 2010 che l'82% dei comuni italiani è a rischio idrogeologico, in cinque Regioni siamo al 100%. Nemmeno lo Stato, che potrebbe fare tanto, fa il suo mentre insegue testardamente "grandi opere" che ormai suonano sempre più come una presa in giro. Non si può non urlare la richiesta di un piano serio e moderno di messa in sicurezza del territorio nazionale. Piano che agisca a livello locale non soltanto con opere minime e semplici (ma queste sì, grandi) di cura e manutenzione: anche attraverso la tutela dei suoli fertili e la rimessa in produzione di quelli compromessi (con forme di neo-agricoltura per l'industria, come coltivazioni per bioplastica in terreni inquinati). Oppure attraverso gli incentivi per un ritorno alla campagna da parte delle nuove generazioni e un premio a chi, attraverso l'attività agricola, serve ancora la Nazione con quei lavori che sanno "portare a spasso l'acqua". Questa è vera modernità, questo è ciò di cui si parla veramente quando si parla di paesaggio, di agricoltura sostenibile o di economia locale. Non è poesia o nostalgia. Sono cose che genererebbero più occupazione e Pil di quanto non ne facciano i disastri. Perché è terribile dirlo - e non è un caso che ci sia chi è stato colto a gioire e ridere per un terremoto - ma un disastro "innaturale" fa quote di Pil attraverso la ricostruzione o magari anche con forme di assicurazione privata che ora, guarda caso, alcuni vorrebbero obbligatorie per tutti.
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