POSTATO dal prof d’italiano:
Per quelli che hanno visto il film in Spagna e per quelli che andranno a vederlo in Italia, questo articolo apparso su la Repubblica il 26 aprile 2012, anche se è un po’ difficile per lessico e sintassi (con una piccola critica a Zucconi: è proprio necessario scrivere in maniera così snob?).
Di Vittorio Zucconi
WASHINGTON - In un cinema dei grassi sobborghi washingtoniani guardo gli spettatori guardare come si fa a uccidere per mangiare, mentre tracannano vasi di acqua zuccherata e masticano granturco gonfiato di calorie. È passato il primo mese dal lancio di "Hunger Games", il filmone di due ore e mezza che ha esordito al terzo posto storico degli incassi e che sta risucchiando nei multisala di primavera 30 milioni di dollari ogni weekend. Soprattutto da quei teen che già avevano reso favolosamente ricca e celebre Suzanne Collins, comperando il libro dal quale è tratto.
Con le mani sulla bocca le ragazze, per soffocare i gridolini di orrore e contenere le boccate di popcorn, con gli occhi sbarrati e i denti stretti sui grugniti virili i maschi, un popolo di giovani e di meno giovani il cui problema quotidiano è semmai quello di "non" mangiare, guardano un'America finta che ha fame.
Una terra post apocalittica che credono impossibile e non sanno invece essere vicinissima. Seguono l'incantevole eroina, i quasi buoni e i cattivissimi, gli incubi e i succubi muoversi del più crudele reality show mai inventato mentre si danno la caccia, perdono e ritrovano le tracce della loro umanità, semplicemente per sopravvivere.
E per intrattenere il gentile pubblico e i sadici despoti che tiranneggiano, una storia che sembra descritta da Noam Chomsky e prodotta dalla Endemol. È un gioco, anzi, un gioco a doppio e triplo fondo, questo che sembra partire da una premessa drammatica antichissima e banale, quella del brivido surrogato e sintetico. Come davanti al vampiro immortale, allo zombie inarrestabile, ad Annibale il Cannibale, agli alieni vomitati da astronavi indistruttibili alla H. G. Wells, così i personaggi, le premesse, la storia dei "Giochi della Fame", di Hunger Games, finge di essere pura fiction e chiede ai suoi consumatori di sospendere la loro incredulità per provare paure insensate e artificiali.
La storia è necessariamente semplice, per essere fruibile da tutti, anche da chi non abbia mai letto né la trilogia della Collins, né Victor Hugo, né Orwell, né il Koestler di "Buio a Mezzogiorno" o il "Nuovo Mondo" di Huxley e non abbia mai sentito neppure nominare il "Metropolis" di Fritz Lang, il primo film che nel 1927 inaugurò il filone della "distopia" cinematografica, delle visioni della modernità letta come il contrario della "utopia". Narra, detto in massima sintesi per evitare delusioni a chi non avesse letto il libro, di un'America sopravvissuta a una insurrezione popolare interna, alla rivolta armata di quel 99 per cento dei "senza" contro i privilegiati dell'1 per cento di chi ha troppo. Appunto un "Occupy" riletto da Mediaset e da Endemol.
Sconfitti, gli insorti si arrendono e accettano le condizioni draconiane dei vincitori. La nazione viene divisa in dodici distretti, ciascuno dei quali è costretto a selezionare ogni anno due dei suoi giovani che si batteranno fino alla morte contro gli altri, e fino alla sopravvivenza di uno, o di una, soltanto. La lotta mortale dei neo gladiatori è teletrasmessa con risultati di share e di pubblico strepitosi, sotto la guida di un satanico "host", un conduttore, e per il godimento neroniano dei fortunati residenti di "Capitol", la fortezza dell'1 per cento, sopra la quale regna un fantastico, come sempre, Donald Sutherland.
Soltanto la serena incultura storica dei teenager che becchettano granoturco e ingollano beveroni attorno a me impedisce loro di riconoscere l'abbondanza di citazioni e di allusioni a una Roma da Caligola o alla rivolta degli schiavi in quella repubblicana.
Eppure il libro e il copione sbattono sulla faccia dei consumatori di popcorn ogni possibile indizio. L'America post "rivolta spartachista" si chiama non più Usa, ma "Panem" (il "Circenses" è implicito). La capitale non è "Capital", ma "Capitol" che significa Campidoglio.
L'acconciatore, stilista, complice della eroina Katniss, e segretamente ribelle ai despoti del Campidoglio, interpretato dal grande rocker Lenny Kravitz, si chiama Cinna, come Lucio Cornelio, uno dei cospiratori contro Giulio Cesare. I riferimenti al mito dei morituri te salutant fra reietti e miserabili costretti a uccidere per sopravvivere possono sfuggire soltanto ai più zotici fra i miei vicini di poltrona che hanno pagato dieci dollari per il biglietto e il doppio per dolcetti, bevande, tacos, chips, secchi di granoturco dal quale il burro fuso colato dentro sprigiona un acre sentore di vomito di neonato. Mentre seguono il dramma dei poveri che si sbranano per il "panem".
I critici di professione hanno osannato "The Hunger Games", con qualche rara eccezione scettica, e la sentenza del pubblico, la sola che a Hollywood interessi, ha superato ormai i 200 milioni di dollari, un trionfo. Ma se molti hanno letto la metafora più facile nel libro, che il film rende abbagliante, che questo apparente orrore sia soltanto l'estrema evoluzione dei reality show e delle infinite versioni di "Survivor" e di isole di ex famosi bolliti costruite per il nostro insaziabile voyeurismo, qualcuno ha intravisto il doppio fondo di una realtà reale sotto la grande cinematografia e il magnifico casting.
Non un futuro di fame per le masse contro una vita da Trimalcioni per la casta del "Capitol", perché il "panem" nell'America di oggi e in quella di domani non scarseggia e sono semmai i poveri a ingozzarsi di troppe porcherie ipercaloriche, come indicano i dati sull'obesità infantile. È il presente di un pane molto più prezioso e costoso delle merendine imbottite di strutto dolcificato per sembrare crema e di patatine fritte nel sego: è il pane vitale della sanità. Nell'ipotesi, molto concreta e imminente, della cassazione da parte della Corte Suprema della pur timida riforma sanitaria voluta da Obama, e nella rivincita prepotente del cinico darwinismo della destra repubblicana che lascia le cure mediche e chirurgiche a chi può pagare i costi mostruosi, non saranno i giochi della fame, a fare lo show.
Saranno - sono - i duelli gladiatori per un ricovero, un by-pass coronarico, una chemioterapia, un cesareo, una mammografia fra i Miserables. Le file di autentici poveri che accorrono quando dentisti e medici volontari aprono studi improvvisati in palestre e palazzetti dello sport, in stati del Sud, cominciano la sera prima. E finiscono soltanto quando i sanitari ripartono. Guardo i miei vicini, per lo più giovani dunque persuasi della propria immortalità, rabbrividire, commuoversi. Li ascolto applaudire gli effetti speciali e la tesa, inflessibile e insieme tenerissima lotta di Katniss con il suo arco e la sua faretra da (e dai) Diana Cacciatrice - la Collins doveva avere letto molto Svetonio, Sallustio, Giovenale e Plutarco prima di scrivere i suoi supersellers - mentre si devastano il corpo divorando il peggio che la cornucopia industrial-alimentare offra loro.
E prepararsi a diventare quelli che nel prossimo film dovranno uccidere o morire nella foresta buia (Teutoburgo? Sherwood? Guerre Stellari?) delle sequenza finali per un flacone di pillole, una tac o una flebo. Tornano a casa sapendo che il "panem" sulla loro tavola non mancherà, come i loro genitori sapevano che vampiri e zombie e alieni non esistono, spaventati e rassicurati. Non sanno che, se l'America del partito della morte, quello che considera la medicina come un'auto di lusso, la vera sequel realistica di "Hunger Games" dovrà svolgersi in una terra chiamata non "Panem", ma "Salutem".
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