POSTATO dal prof d'italiano:
In questo post trovi una guida alla visita del Palazzo Ducale di Venezia, con qualche accenno storico.
VENEZIA: PALAZZO DUCALE
Capolavoro dell’arte gotica, il Palazzo Ducale di Venezia è una meravigliosa costruzione composta da elementi di epoche e stili diversi:
- le fondamenta antiche
- la struttura d’insieme risalente al Tre-Quattrocento
- le aggiunte rinascimentali tra Quattrocento e Cinquecento
- le aggiunte manieristiche tra Cinquecento e Seicento.
Inizialmente Palazzo Ducale era una fortezza; tradizionalmente la fondazione del palazzo (sede del governo, residenza pubblica e privata del doge) è attribuita ad Agnello Partecipazio, doge negli anni 810-827. A questo periodo si fa risalire la nascita della città di Venezia; precedentemente le isole della laguna erano abitate da alcune famiglie dedite alla pesca e allo sfruttamento delle saline e solo di tanto in tanto (a partire dal V secolo) era successo che abitanti dell’entroterra si erano spostati temporaneamente nelle isole, in seguito a invasioni di popoli barbarici (dai Visigoti agli Unni, dai Longobardi ai Franchi).
All’inizio del IX secolo Venezia incomincia la sua storia vera e propria, con la costruzione dei primi edifici pubblici, tra cui una prima basilica edificata per conservare le spoglie di San Marco (che erano state trafugate nell’828 da Alessandria d’Egitto) e il primo palazzo ducale, cioè del doge di Venezia. A seguito degli studi effettuati nel XIX secolo possiamo immaginare il castello dei dogi nell’XI secolo così come nell’immagine qui sotto:
Fino al primo terzo del XII secolo il Palazzo Ducale conserva il suo aspetto fortificato, anche per i numerosi tumulti che segnarono la storia di Venezia fino a quell’epoca. Poi, soprattutto con il dogato di Sebastiano Ziani le cose cominciano a cambiare: fra il 1172 e il 1178 un nuovo “palazzo comune” viene aggiunto alla prima costruzione, mentre contemporaneamente si accelera la sistemazione di piazza San Marco.
La storia di Palazzo Ducale nella sua forma attuale comincia nel 1340, con una serie di interventi che portano al trionfo del Gotico in questo stupendo edificio. Esso è formato da 3 grandi corpi di fabbrica che hanno inglobato e unificato precedenti costruzioni:
- l’ala verso il Bacino di San Marco (che contiene la Sala del Maggior Consiglio) e che è la più antica, ricostruita a partire dal 1340;
- l’ala verso la Piazza (già Palazzo di Giustizia) con la Sala dello Scrutinio, la cui realizzazione nelle forme attuali inizia a partire dal 1424;
- sul lato opposto, l’ala rinascimentale, con la residenza del doge e molti uffici del governo, ricostruita tra il 1483 e il 1565.
UNA CURIOSITÀ:
dalla 9ª arcata della loggia, a partire da sinistra, riconoscibile dalle 2 colonne di marmo rosso di Verona, venivano lette le sentenze di morte.
INCOMINCIAMO LA VISITA AL PALAZZO DUCALE:
Entrati nel Palazzo dalla Porta del Frumento (così chiamata perché vi si trovava accanto l’Ufficio delle Biade), si ha a sinistra l’ala occidentale e a destra l’ala rinascimentale, a est. Di fronte c’è il lato settentrionale con cui Palazzo Ducale confina con la Basilica di San Marco, che era la cappella del doge. La piccola facciata marmorea con l’orologio risale ad un intervento di ristrutturazione del 1615.
Al centro del cortile vi sono due vere da pozzo, massicce e ornatissime fusioni in bronzo risalenti alla metà del XVI secolo.
Le due ali più antiche del palazzo presentano sul cortile facciate più semplici e severe, mentre l’ala rinascimentale ha una decorazione più ricca, che culmina, sul fondo, con la Scala dei Giganti.
La Scala dei Giganti è l’antico ingresso d’onore ed ha due colossali statue di Marte e di Nettuno, scolpite da Jacopo Sansovino nel 1565, simbolo della potenza di Venezia per terra e per mare. Qui il doge veniva solennemente incoronato in presenza di una folla numerosa. La scala, ideata da Antonio Rizzo tra il 1483 e il 1485 (e completata nel 1491 nella parte scultorea), è contigua all’Arco dedicato al doge Francesco Foscari (1423-1457), vero arco trionfale, a tutto sesto, a fasce alterne in pietra d’Istria e marmo rosso di Verona, collegato alla Porta della Carta attraverso l’androne Foscari.
A destra della Scala dei Giganti si apre il cinquecentesco Cortile dei Senatori, dove questi si adunavano in attesa delle riunioni di governo.
Marte
Nettuno
LE LOGGE
Il piano delle Logge consente un giro lungo le tre ali del palazzo; sono proprio le Logge a conferire all’architettura del Palazzo la sua caratteristica leggerezza.
Capitello esterno raffigurante l'Ebbrezza di Noè, attribuita a Filippo Calendario
(prima metà del XIV secolo)
L'esterno di Palazzo Ducale ha una serie di capitelli decorati con complesse allegorie. Centinaia di figure creano un vasto sistema simbolico, una specie di enciclopedia che allude all'importanza del sapere. Come ricorda a tutti il cartiglio in mano all'arcangelo Michele (scolpito sullo spigolo verso le due colonne del molo), la sapienza ispira la giustizia e conduce alla salvezza. Sotto di lui stanno le naturalistiche statue di Adamo ed Eva, che rappresentano l'ignoranza e la colpa originaria da riscattare. Lo stesso tema della giustizia e della salvezza si riscontra negli altri capitelli, con pianeti e simboli astrologici attorno al Sole, con il Giudizio di Salomone (verso la basilica di San Marco), e con l'Ebbrezza di Noè (nell'angolo di sud-est).
Per salire ai piani superiori si passa lungo l’ala rinascimentale, dove si trovavano gli uffici di varie magistrature. Sulla parete sono incastonate diverse “bocche di leone”, in cui, a partire dalla fine del XVI secolo, potevano essere introdotte denunce di crimini o malversazioni. Una volta introdotto nella fessura, il biglietto finiva nella cassetta di legno che si apriva dall’altra parte del muro. Va detto che solo raramente questi esposti venivano recepiti dal Governo, e in ogni caso dopo un’attenta verifica.
Notevoli sono poi due lapidi: una del 1362, in caratteri gotici, promette indulgenza a chi faccia elemosina ai carcerati; l’altra, di fronte alla Scala dei Giganti, è una raffinata esecuzione di Alessandro Vittoria a ricordo della visita a Venezia di Enrico III di Francia (1574) e si trova oltre l’accesso alla Scala d’Oro, ornato ai lati da due gruppi marmorei di Tiziano Aspetti (XVI secolo) raffiguranti Atlante che regge la volta celeste e Ercole che uccide l’Idra.
LA SCALA D’ORO
Il nome Scala d’Oro deriva dalla ricchezza delle decorazioni in stucco bianco e oro a 24 carati che ornano la volta, eseguite a partire dal 1557 da Alessandro Vittoria, mentre i riquadri ad affresco, della stessa epoca, sono opera di Giambattista Franco. Voluta dal doge Andrea Gritti, il cui stemma è visibile sull’arcone, fu progettata da Jacopo Sansovino nel 1555 e ultimata dallo Scarpagnino nel 1559. Era la scala d’onore che conduceva all’appartamento del Doge e alle sale in cui si riunivano le magistrature della Repubblica.
La prima rampa della scala è dedicata a Venere, come si deduce dai riquadri del Franco, ed allude quindi alla conquista di Cipro, isola natale della dea, da parte di Venezia ed ai suoi domini orientali. Dopo la biforcazione, la scala a destra esalta Nettuno, cioè il dominio sul mare da parte di Venezia.
PRIMO PIANO
SALA DEGLI SCARLATTI
La sala, un tempo adibita ad anticamera per i consiglieri ducali, prende probabilmente il nome dal colore delle loro toghe. Dell’antico arredo conserva il soffitto intagliato, progettato ed eseguito probabilmente da Biagio e Pietro da Faenza. Vi campeggia lo stemma del doge Andrea Gritti. Tra due finestre è un camino, opera di Antonio e Tullio Lombardo, eseguito nel 1507 e caratterizzato da una bella ornamentazione con cornucopie, foglie d’acanto, volute, testine di putti. Di ambito lombardesco sono probabilmente anche i due rilievi marmorei collocati sopra le porte.
Alle pareti, due lunette ad affresco: la Resurrezione di Giuseppe Salviati, e Madonna col Bambino, opera giovanile di Tiziano.
SALA DELLO SCUDO
Il nome della sala deriva dall’uso di esporre in essa lo stemma (scudo) del doge in carica, che qui concedeva udienza e riceveva gli ospiti. Lo stemma esposto è di Ludovico Manin, ultimo doge della Repubblica prima della caduta nel 1797.
E’ l’ambiente più grande e luminoso di tutto l’appartamento e forma con la Sala dei Filosofi (che ne costituisce il prolungamento ortogonale) la geometria delle dimore veneziane più antiche, con pianta a T. Qui il doge teneva banchetti e conviti, qui – dopo l’entrata ufficiale, che avveniva nel Collegio – poteva ricevere gli ospiti. E’ caratterizzato da una grande decorazione con carte geografiche e, al centro della stanza, due globi con la sfera celeste e quella terrestre, a significare che la potenza dello stato poggia su una tradizione illustre e gloriosa.
La decorazione alle pareti fu eseguita, nella sua versione originale, dopo l’incendio del 1483 dal geografo e umanista Giovan Battista Ramusio (autore della mappa con l’Italia e il Mediterraneo), dal greco Giovanni Domenico Zorzi (l’Asia anteriore) e dal cartografo piemontese Giacomo Gastaldi (la Turchia e l’Egitto, l’Asia di Marco Polo). Queste quattro carte geografiche, che rivestono le due pareti principali, vennero poi rifatte nel 1762 dal cartografo e poligrafo Francesco Grisellini, che su commissione del doge-letterato Marco Foscarini vi aggiunse altri dipinti con la descrizione dei viaggi dei più celebri esploratori veneziani: Nicolò e Antonio Zen, che si spinsero sino alla Groenlandia; Pietro Querini, naufragato sui fiordi norvegesi; Alvise da Mosto, scopritore delle isole del Capo Verde.
Alla stessa epoca appartengono anche i due grandi globi girevoli.
SALA GRIMANI
La stanza prende il nome dallo stemma dei Grimani, visibile al centro del soffitto. Questa potente famiglia fornì 3 dogi alla Repubblica: Antonio (1521-1523), autentico self-made man arricchitosi con la mercatura in Levante; Marino (1595-1605) che alla sensibilità culturale accompagnò i tratti del mecenate e una innata generosità verso i poveri; Pietro (1741-1752) che dall’amicizia con Newton seppe ricavare una proficua lezione del modello economico inglese.
Con questa stanza si entra nello spazio esclusivamente riservato alla dimora privata del Serenissimo. Notevole il caminetto, riconducibile alla bottega dei Lombardo; l’elegante fascia ornamentale propone il leone marciano circondato da divinità e figure marine; i quadri del fregio attorno al soffitto sono tutti di Andrea Vicentino (fine del ‘500) e rappresentano figure allegoriche di incerta identificazione, tranne quelli che ritraggono San Marco col Leone, la Geografia, l’Agricoltura, la Legge, l’Architettura, Venezia in figura muliebre, l’Astronomia, la Ricompensa, la Vergine.
Alle pareti sono stati riuniti altri importanti dipinti raffiguranti il Leone di San Marco, tra cui il celeberrimo Leone andante di Vittore Carpaccio, con le zampe anteriori sulla terra e quelle posteriori sulle onde, a simboleggiare il dominio della Repubblica sulla terra e sui mari.
Gli altri due, quattrocenteschi, sono opera di Jacobello del Fiore e di Donato Veneziano.
Vittore Carpaccio: Il leone andante di San Marco (1516)
Sullo sfondo si riconosce il paesaggio lagunare con gli edifici della piazza prospicienti il bacino: il Campanile, la Torre dell’orologio, la Basilica marciana ed il Palazzo Ducale. A destra si vedono le galeazze, le grandi galere a remi e a vela che assicurarono a Venezia il dominio sui mari.
SALA ERIZZO
In questa sala, che deve il suo nome a Francesco Erizzo, doge dal 1631 al 1646, ritroviamo gli stessi elementi decorativi delle sale precedenti: il soffitto ad intagli dorati su fondo azzurro ed il camino lombardesco, sormontato da una cappa con lo stemma Erizzo tra Venere e Vulcano. Lungo le pareti corre un fregio con putti e simboli di guerra che alludono alle imprese del doge Erizzo, giunto al vertice dello Stato grazie soprattutto alle benemerenze militari. Da qui, attraverso una finestra alla quale si accostava una scaletta, si passava a un giardino pensile.
Il doge Francesco Erizzo in un ritratto di Bernardo Strozzi del 1631 circa
Scudo della Croce, moneta in argento con il nome di Francesco Erizzo
SALA DEGLI STUCCHI O PRIÙLI
La lavorazione a stucco della volta e delle lunette risale al dogado di Marino Grimani, mentre è del doge Antonio Priuli (1556-1559) lo stemma che decora il caminetto, sormontato da figure allegoriche. Pietro Grimani ordina le decorazioni in stucco alle pareti e al soffitto nel 1743.
La sala è arricchita da dipinti con vari episodi della vita di Cristo, oltre che dal ritratto del re di Francia Enrico III (forse di mano di Jacopo Tintoretto), a cui Venezia riservò una spettacolare accoglienza nel 1574, mentre si recava dalla Polonia in Francia per succedere al trono lasciato vacante dal fratello Carlo IX.
SALA DEI FILOSOFI
La sala – che prende nome dalle dodici immagini di filosofi antichi che vi erano state sistemate nel XVIII secolo, poi sostituite da allegorie e ritratti di dogi – si raccorda direttamente con la sala dello Scudo. Dando le spalle a quest’ultima, si nota sulla parete a sinistra, una porticina che immette su una scaletta interna, mediante la quale il Doge poteva raggiungere rapidamente dai suoi appartamenti le sale al piano superiore dove si riunivano il Senato ed il Collegio.
Sulla parete sopra la porta si trova l’affresco di Tiziano San Cristoforo con il Bambino sulle spalle mentre guada il corso d’acqua, carico di significati ideologici, splendida testimonianza della fase giovanile del maestro.
SALA CORNER
Il nome fa riferimento ad alcuni dei dipinti della sala, che raffigurano il doge Giovanni Corner (1625-1629). Notevole il camino, in marmo di Carrara, con fregio raffigurante putti alati su delfini ed il leone marciano al centro.
SALA DEI RITRATTI
Vi si trovano esposte la tela di Alvise Vivarini con la Madonna in trono col Bambino, una Vergine orante di scuola giottesca ed il Cristo compianto, frutto probabilmente della collaborazione tra i fratelli Gentile e Giovanni Bellini, intorno al 1472.
SALA DEGLI SCUDIERI
Gli scudieri erano nominati a vita direttamente dal doge e otto di loro dovevano essere sempre a sua disposizione. Le loro funzioni andavano dallo svolgere servizi di anticamera, al portare i simboli del Serenissimo nei cortei e nelle processioni. La sala è priva della decorazione originaria ed il suo maggior pregio è dato dai due portali: uno immette nella sala dello Scudo, mentre l’altro consente l’accesso alla Scala d’Oro. E’ evidente perciò che l’ingresso principale all’appartamento ducale avveniva proprio attraverso questo ambiente.
SECONDO PIANO
SALE ISTITUZIONALI (secondo piano)
Inizia con l’Atrio Quadrato il lungo percorso attraverso le Sale Istituzionali del Palazzo, dove si svolgeva ai massimi livelli la vita politica e amministrativa della Repubblica, per secoli oggetto d’ammirazione: stupivano la sua immutabilità – peraltro mai codificata, mai posta per iscritto – e la sua efficienza capace di sfidare il tempo, garantendo la pace sociale.
ATRIO QUADRATO
Questa stanza aveva soprattutto una funzione di anticamera ai luoghi in cui si riunivano i più importanti organi di governo. Il decoro risale al XVI secolo, durante il dogado di Girolamo Priùli, raffigurato sul soffitto, in un dipinto di Tintoretto, ornato delle prerogative del potere e dei simboli di Giustizia e Pace. Agli angoli quattro scene bibliche, che alludono forse alle virtù del doge, e le stagioni, probabilmente opera della bottega di Tintoretto. Il programma celebrativo era completato da quattro dipinti di mitologie che si trovano ora nella sala dell’Anticollegio. Al loro posto vi sono L’angelo annunciante ai pastori di Girolamo Bassano e opere di soggetto biblico attribuite con qualche dubbio a Paolo Veronese.
Jacopo Robusti detto il Tintoretto: Il doge Gerolamo Priùli riceve dalla Giustizia la bilancia e la spada (1565-1567)
Il doge è inginocchiato, veste il mantello di ermellino ed il corno dogale, il celebre copricapo della massima autorità veneziana, mentre riceve la spada e la bilancia dalla Giustizia e dalla Pace, riconoscibile per il ramoscello di ulivo attorno al braccio. Dall’alto, in un moto vorticoso di vesti, scende San Girolamo a guidare le scelte del suo protetto.
corno dogale
SALA DELLE QUATTRO PORTE
La sala aveva la duplice funzione di anticamera d’attesa e di passaggio e prende il nome da quattro splendide porte incorniciate da preziosi marmi orientali, sormontati ciascuno da un gruppo scultoreo che si riferisce all’ambiente al quale dà accesso. L’aspetto attuale risale ad un’imponente ristrutturazione operata dopo il disastroso incendio del 1574 da Antonio da Ponte su progetto di Andrea Palladio. Il soffitto a botte (con stucchi di Giovanni Cambi detto il Bombarda) ospita affreschi a soggetto mitologico e raffigurazioni di città e regioni sotto il dominio veneto, realizzati da Jacopo Tintoretto a partire dal 1578; questa decorazione vuole mostrare la fondazione di Venezia, la sua indipendenza sin dalle origini e la missione storica dell’aristocrazia veneziana.
Le opere alle pareti di questa sala furono realizzate alla fine del Cinquecento; tra esse Il doge Antonio Grimani in adorazione davanti alla Fede e san Marco in gloria di Tiziano.
Questo dipinto è l’unico dei quadri votivi dogali di Tiziano a essere sfuggito agli incendi che colpirono Palazzo Ducale nel 1574 e nel 1577. Il quadro fu infatti commissionato dal Consiglio dei Dieci nel 1555, ma rimase a lungo nella bottega del pittore e fu collocato nella Sala delle Quattro Porte solo dopo la morte dell’artista (e con alcune modifiche alle figure laterali). Il Grimani, prima di diventare doge, aveva ricoperto la carica di “capitano generale da mar”, che gli aveva recato amare delusioni (la sconfitta subita dai Turchi presso Zonchio nel 1599 e un conseguente processo intentato contro di lui dalla Repubblica) e persino umiliazioni (la pubblica ammenda in catene), prima della riabilitazione e dell’elezione a doge. Per questo Tiziano lo ritrae non in vesti dogali, ma in armatura, sottolineando il suo ruolo di difensore della Fede. L’atteggiamento di Antonio Grimani, con le braccia aperte come san Francesco che riceve le stimmate, e il corno ducale tenuto in mano da un valletto mostrano come il pittore abbia voluto dare del doge un’immagine di umiltà e di intensa devozione. A sinistra compare la figura di san Marco, che leva lo sguardo verso l’apparizione divina, mentre sullo sfondo si apre una luminosa veduta di Venezia e del suo porto stipato di imbarcazioni, simbolo della sua potenza navale, celebrata nonostante la memoria della sconfitta che la figura del doge portava con sé.
In questa sala si può ammirare anche, a cavalletto, una celebre tela di Giambattista Tiepolo: Venezia che riceve da Nettuno i doni del mare.
Realizzata tra il 1756 e il 58, quest’opera propone ancora il mito di una Venezia signora dell’Adriatico e consacrata a san Marco. Ma Tiepolo si allontana qui dalla tradizione pittorica rappresentando sia Nettuno sia il leone stanchi e sottomessi. E’ Venezia la stella luminosa del dipinto, acconciata come una patrizia di fine Cinquecento, incoronata, ingioiellata, avvolta in abiti cerimoniali, con la cappa di ermellino del doge, il bastone del potere militare nella mano. Le perle che indossa, come il corallo e l’oro che escono dalla cornucopia di Nettuno, confermano che il mare è la fonte di ricchezza di cui la Serenissima ha goduto nel corso della sua storia. Giambattista Tiepolo è uno dei rari pittori settecenteschi che ebbero la possibilità di contribuire con una loro opera all’ampliamento della decorazione di Palazzo Ducale, sostanzialmente completata all’inizio del Seicento. L’occasione è legata al degrado di un affresco di Jacopo Tintoretto; per questo si spiega la presenza in questo dipinto di forme stilistiche tipicamente cinquecentesche.
SALA DELL’ANTICOLLEGIO
Questa sala era l’anticamera d’onore per le ambascerie e le delegazioni che attendevano di essere ricevute dal Collegio, cui era delegata la politica estera dello stato.
Anche questo ambiente, come il precedente, fu restaurato dopo l’incendio del 1574 e il suo apparato decorativo è perciò simile a quello della Sala delle Quattro Porte, con stucchi ed affreschi sul soffitto. Quello centrale, con Venezia in atto di conferire ricompense e onori, si deve a Paolo Caliari detto Veronese. Un prezioso fregio orna le sommità delle pareti e sontuosi sono il camino tra le finestre e la bella porta che immette nella sala del Collegio, adorna di colonne e con un frontone sormontato da un gruppo marmoreo di Alessandro Vittoria.
Accanto alle porte sono collocate le quattro tele dipinte da Jacopo Tintoretto per l’Atrio Quadrato, portate qui nel 1716 a sostituzione dell’originaria decorazione con pannelli di cuoio. In tutte, le scene mitologiche hanno significati allegorici del saggio governo della Repubblica.
Jacopo Robusti detto Tintoretto:
La Pace, la Concordia e Minerva che scaccia Marte
Il dipinto fu eseguito da Tintoretto per le pareti dell’Atrio Quadrato, insieme ad altre 3 tele; la commissione dei quattro dipinti allegorici legati al concetto tematico dell’unione e della concordanza risale al 1577 e risultava portata a termine il 26 luglio 1578, quando Paolo Veronese e Palma il Giovane fornivano una stima delle opere, al fine di stabilire quanto Tintoretto dovesse percepire dai Provveditori del Sale per il lavoro svolto. Le potenti figure di questa tela, sintetizzate nelle pose, sono legate l’una all’altra dai gesti: Minerva, al centro, si volge verso Marte respingendolo con il gesto della mano, mentre con l’altra si appoggia alla Pace, che si rivolge alla Concordia, di cui si vede solo il profilo e la spalla.
Jacopo Robusti detto Tintoretto: Le Tre Grazie e Mercurio
Nel 1648 Carlo Ridolfi spiegò il significato dell’allegoria rappresentata in questa tela come celebrazione politica del saggio governo della Repubblica di Venezia. In tempi recenti il significato del dipinto è stato allargato al campo cosmologico: ognuna delle tele dipinte per l’Atrio Quadrato alluderebbe a una stagione e a un elemento, corrispondendo alle raffigurazioni delle Stagioni rappresentate sul soffitto della sala. Così il germogliare delle piante, lo sbocciare dei fiori e le movenze delle figure femminili nell’atto di sollevarsi evocherebbero qui la primavera e l’elemento dell’aria. Come in un fregio figurale le Grazie sono legate l’una all’altra, le pose dinamicamente impostate lungo direttrici diagonali, movimentate dalla luce diurna che colpisce i corpi sbalzandoli morbidamente. L’incarnato delle Grazie è esaltato dalla luce naturale e dalle cromie dei panneggi setosi e abbondanti che cingono ciascuna delle tre.
Jacopo Robusti detto Tintoretto:
Lo sposalizio di Bacco e Arianna alla presenza di Venere
Al significato antico di Venezia nata in una spiaggia di mare, resa abbondevole d’ogni bene terreno, ma coronata anche con corona di libertà dalla mano divina, si può affiancare un altro significato cosmologico: e dunque, questa tela rappresenterebbe le nozze simboliche di Venezia con il mare Adriatico, che si rinnovano ogni anno con grande fasto nel giorno dell’Ascensione, ma anche la stagione dell’autunno a cui si riferiscono la corona di pampini di Bacco e l’elemento dell’acqua dello sfondo marino. Come avviene nelle altre tre tele della sala, la composizione vede il disporsi delle poche figure monumentali in pose elegantemente dinamiche, mentre il paesaggio è solo accennato. Nel dipinto il movimento ritmico che informa i tre personaggi ha origine nell’incontro delle loro mani, proprio al centro della composizione.
Jacopo Robusti detto Tintoretto: La fucina di Vulcano
In questa stanza vi sono altre opere celebri, tra cui il Ratto d'Europa (1576-1580) di Paolo Caliari detto il Veronese.
Giove, innamorato della principessa fenicia Europa, decide di rapirla assumendo le sembianze di un toro. In primo piano la bella, vinto l’iniziale timore, siede fiduciosa ed ignara sul falso toro che le lecca il piede, baciandolo amorevolmente. Le ancelle la sostengono mentre degli amorini volano gettando fiori dall’alto. Sul fondo ci viene raccontato il seguito della storia: il toro lascerà la riva portando con sé Europa, mentre le ancelle tenteranno di fermarlo gettandosi in acqua. Risalta su tutto la grande eleganza della composizione e la qualità straordinaria del colore, vivo e ricco di luce, che esalta la sensualità della fanciulla.
SALA DEL COLLEGIO
Il Collegio, o Pien Collegio, riuniva i Savi e la Signoria, organi distinti ed autonomi. I primi si dividevano in Savi del Consiglio, che si occupavano soprattutto di politica estera, Savi di Terraferma, competenti sulle questioni inerenti i territori fuori della laguna, e Savi agli Ordini, che sovrintendevano alle materie marittime. La Signoria era composta dai tre capi della Quarantia e dal Minor Consiglio, formato dal doge e da sei consiglieri, uno per ogni sestiere. Questa interrelazione tra diverse cariche era uno dei segreti della costituzione veneziana, che fu in grado di garantire per secoli da un lato gli equilibri istituzionali, dall’altro la pace sociale e fu oggetto di ammirazione delle principali potenze europee. I compiti del Collegio erano soprattutto quelli di predisporre e coordinare i lavori del Senato, leggendo i dispacci degli ambasciatori e dei rettori, ricevendo le delegazioni straniere e promuovendo l’attività legislativa e politica.
L’occasione del secondo ciclo di pitture di Paolo Veronese al Palazzo Ducale è conseguente all’incendio che nel maggio del 1574 distrugge una parte delle sale del secondo piano. Si tratta del soffitto della monumentale sala del Collegio: questa, così come quelle contigue, venne ricomposta dopo l’incendio su disegno di Andrea Palladio e risulta, pur nel suo fasto inevitabile e dichiarato, vista l’importanza del luogo nella liturgia del potere e delle sue manifestazioni, di grande equilibrio. Veronese vi lavora dall’estate del 1576 e per tutto l’anno successivo e oltre, così che nel corso del 1578 il complesso risultava terminato, costituito in tutto da 17 scene più 4 tele ottagonali con iscrizioni latine.
La decorazione della sala fu completata dopo l’incendio del 1574 su progetto di Andrea Palladio. Francesco Bello e Andrea da Faenza lavorarono alla realizzazione del rivestimento ligneo delle pareti, del tribunale sul fondo e del soffitto intagliato. Le splendide tele del soffitto furono invece commissionate a Paolo Caliari detto Veronese. Il soffitto del Collegio è uno dei capolavori dell’artista che celebra qui Il Buon Governo della Repubblica, la Fede su cui esso riposa e le Virtù che lo guidano e lo rafforzano. Il primo scomparto rettangolare ci presenta la visione del campanile di San Marco che emerge dietro le figure di Marte e Nettuno. Al centro è Il Trionfo della Fede e nello scomparto rettangolare, verso la tribuna, Venezia con la Giustizia e la Pace. Tutto attorno, in otto pannelli a forma di T e di L, stanno le Virtù di Governo. La grande tela posta sopra il Tribunale, ancora di Paolo Veronese, esalta la prestigiosa vittoria ottenuta a Lepanto il 7 ottobre 1571 dalla flotta cristiana su quella turca, con il prevalente contributo di navi e uomini veneziani.
Il resto delle opere di questa sala è dovuto a Tintoretto e aiuti. Vi sono raffigurati dogi assistiti dal Salvatore, dalla Vergine e dai Santi.
Lo splendido soffitto del salone è formato nel suo disegno da un insieme di cornici intagliate e dorate disposte secondo una sostanziale tripartizione, leggibile però sia in senso longitudinale che in quello trasversale, dando vita a blocchi potenti di figure geometriche e di ricchissimi ornati ad intaglio di differente concezione.
Sull’asse longitudinale mediano sono disposte le tele maggiori, due rettangoli e un ovato al centro con Marte e Nettuno, Venezia dominatrice con la Giustizia e la Pace, La Fede e la Religione. Agli angoli del soffitto, quattro tele a L con La Ricompensa, La Prosperità, La Fedeltà, La Moderazione; negli spazi mediani tra le scene centrali, quattro tele a T con La Semplicità (o La Purezza), La Mansuetudine, La Vigilanza, L’Industria (o, secondo altri, La Dialettica).
A completare il complesso, sei tele oblunghe – quattro ovali e due ottagoni allungati – con scene storico-allegoriche raffiguranti altrettanti exempla di virtù civili riferiti a Lucio Cornelio Silla, Publio Decio Mure, Caronda, Zaleuco e due ad Alessandro Magno.
Suggeritore del programma iconografico pare sia stato Marcantonio Barbaro, fratello di Daniele, intellettuale di vaglia e dilettante di pittura e scultura.
Il soffitto e i dipinti della Sala del Collegio:
1- Allegoria della Fede "Rei Publicae Fundamentum"
2- Venezia in trono onorata dalla Giustizia e dalla Pace
3- Marte e Nettuno
4- Prosperità
5- Fedeltà
6- Vigilanza
7- Mansuetudine
8- Dialettica
9- Semplicità (o Purezza)
10- Ricompensa
11- Moderazione
Paolo Caliari detto Veronese: Marte e Nettuno
Nella notte dell’11 maggio 1574 Palazzo Ducale è devastato da un incendio. Già nel 1575 viene affidato l’incarico al Veronese di realizzare le tele destinate a decorare il soffitto della rinnovata sala del Collegio. Per questo lavoro il pittore è pagato fino a luglio del 1577 ed è sicuro che le tele erano al loro posto prima del 3 marzo del 1578, quando muore il doge Sebastiano Venier, le cui insegne appaiono nel fregio sottostante al soffitto. La decorazione del soffitto si articola secondo un piano iconografico esaltatorio del buon governo di Venezia, della Fede su cui esso si basa e delle Virtù cristiane che ne guidano gli atti. I tre comparti centrali raffigurano Marte e Nettuno, La Fede e Venezia in trono con la Giustizia e la Pace; tutto attorno si trovano 8 pannelli con le figure delle Virtù, frammezzate da sei chiaroscuri con raffigurazioni di episodi storici.
Paolo Caliari detto Veronese: Venezia in trono con la Giustizia e la Pace
Venezia è raffigurata come una splendida giovane donna vestita di abiti elegantissimi, intessuti d’oro, e di un manto di ermellino, che regge con la mano destra il bastone del comando; il suo volto è colto in controluce, secondo una consuetudine tipica della produzione matura di Paolo, che verrà assai apprezzata e imitata, due secolo dopo, anche da Giambattista Tiepolo.Sotto il trono su cui Venezia siede si trova accucciato il leone, simbolo del protettore della città san Marco e dello stesso Stato veneziano. Ai piedi dei gradini si trovano le due figure allegoriche della Giustizia (a destra) e della Pace (a sinistra), identificabili la prima dal tradizionale attributo della bilancia e la seconda dalla spada.
Paolo Caliari detto Veronese: Allegoria della Fede
Le otto figure delle Virtù cristiane collocate ai lati dei dipinti centrali, tutte rappresentate da giovani donne bellissime, sono riconoscibili grazie agli attributi che le accompagnano: La Fedeltà dal cane, La Mansuetudine dall’agnello, La Semplicità (o Purezza) dall’ermellino, La Ricompensa dal dado e dalla corona, La Moderazione dall’aquila, La Vigilanza dalla gru, La Prosperità dalla cornucopia e La Dialettica (in passato impropriamente ritenuta anche L’Industria) dalla ragnatela. Esse sviluppano una forma decorativa di preziosa limpidezza e intensità coloristica, portando a una forte tensione superficiale i piani luminosi, gli effetti cangianti, la trasparenza alabastrina dei colori. Le otto figure femminili si accampano all’interno del limitato spazio a disposizione del pittore, ma quasi ne annullano i limiti, grazie al telaio quasi ininterrotto delle architetture che appaiono sullo sfondo di ciascuna tela, che sembrano quasi girare intorno alla sala, suggerendo un’unità di spazio luminoso. Risulta così un effetto di ampliamento illusorio dello spazio in profondità che sfonda quello reale, per proiettare quasi le figure contro il cielo.
Paolo Caliari detto Veronese: La Dialettica
Paolo Caliari detto Veronese: La Fedeltà
Paolo Caliari detto Veronese: La Mansuetudine
Paolo Caliari detto Veronese: La Semplicità
Paolo Caliari detto Veronese: La Moderazione
Altre opere presenti in questa sala:
Paolo Caliari detto Veronese: Sebastiano Venier assistito dai Ss. Mauro e Giustina tra la Fede e Venezia, ringrazia il Redentore per la vittoria di Lepanto
Jacopo Robusti detto Tintoretto: Andrea Gritti, assistito da S. Marco, dinanzi a Maria e ai Ss. Bernardino, Luigi e Marina
Jacopo Robusti detto Tintoretto: Sposalizio di S. Caterina e il doge Francesco Donà orante
Jacopo Robusti detto Tintoretto: Il doge Nicola Da Ponte, assistito dai Ss. Marco e Nicola, invoca Maria in gloria tra i Ss. Antonio abate e Giuseppe
Jacopo Robusti detto Tintoretto: Il doge Alvise Mocenigo, assistito da S. Marco, prega Cristo per la cessazione della peste del 1576
SALA DEL SENATO Questa sala, detta anche dei Pregadi, perché il doge “pregava” i membri di partecipare alle riunioni, ospitava le adunanze del Senato, una delle più antiche istituzioni veneziane, la cui creazione risale al XIII secolo. Era l’organo deputato a sovrintendere alle materie economico-finanziarie, come la produzione, il commercio e la politica estera e divenne una sorta di comitato ristretto del Maggior Consiglio a cui avevano accesso solo gli esponenti delle famiglie più abbienti.
I lavori di rifacimento della sala dopo l’incendio del 1574 avvennero negli anni ottanta del Cinquecento. Terminato il soffitto, si diede inizio alla decorazione pittorica, che risulta terminata completamente nel 1595. Tintoretto e la sua bottega sono gli autori di alcune opere in cui si nota la preminente figura del Cristo (allusione forse alle funzioni di “conclave” del Senato nella elezione del Doge).
Il soffitto e i dipinti della Sala del Senato:
1- Jacopo e Domenico Tintoretto: Venezia seduta tra gli dei riceve i doni del mare
2- Andrea Michieli detto il Vicentino: Venere soprintende all'opera dei Ciclopi nella fucina di Vulcano
3- Antonio Vassilacchi detto l'Aliense: Il doge accoglie storici e poeti
4- Marco Vecellio: I maestri della Zecca coniano monete sorvegliati dai provveditori
5- Tommaso Dolabella: Il doge Pasquale Cicogna adora l'Eucarestia in occasione della consacrazione della chiesa del Redentore
6- Jacopo Robusti il Tintoretto: La Sapienza
7- Jacopo Robusti il Tintoretto: La Verità
8- Marco Vecellio: La Libertà
9- Marco Vecellio: Il Valore Militare
Jacopo e Domenico Tintoretto: Venezia seduta tra gli dei riceve i doni del mare
Con questo dipinto Tintoretto si conferma pittore ufficiale della serenissima, rappresentante principale della pittura di carattere politico-civile del tempo. La tela raffigura (secondo il Ridolfi nel 1648) “Venezia in un cielo cinta da molti Dei, alla quale i Tritoni e le Nereidi, per ordine di Mercurio arrecano dal mare tributi di conchiglie, masse di coralli, perle e altre cose preziose, come ad imperante Regina”. L’impianto compositivo organizzato dinamicamente in gruppi ordinati lungo direttrici incrociate e semicerchi progressivi, enfatizza il tono epico della raffigurazione. La complessità del progetto è stata attribuita esclusivamente a Tintoretto, al quale invece si affiancarono gli aiuti nella realizzazione dell’opera. La resa delle figure dei nudi, dalle muscolature accentuate con un gusto realistico, e le minuziose notazioni descrittive, prevalenti nella parte fantastica delle divinità marine, è stata ricondotta alla mano del figlio Domenico. Le interpretazioni simboliche della scena hanno riconosciuto nelle sei divinità che circondano Venezia e nella figura di vecchio barbuto a destra, la rappresentazione di un’assemblea del Consiglio, costituita dai sei consiglieri, dal gran cancelliere e dal doge, sotto cui si troverebbero altri membri del governo e il popolo veneziano.
Andrea Michieli il Vicentino: Venere soprintende all'opera dei Ciclopi nella fucina di Vulcano
Tommaso Dolabella: Il doge Pasquale Cicogna adora l'Eucarestia in occasione della consacrazione della chiesa del Redentore
Di Jacopo Palma il Giovane sono invece 4 dipinti votivi, legati a vicende storiche della Repubblica. Viene qui ricordata l’eroica difesa di Venezia, simboleggiata mentre lancia il Leone contro il Toro che indica il resto dell’Europa. Agli inizi del XVI secolo, avendo ulteriormente allargato i suoi domini sulla terraferma, Venezia si era trovata a dover fronteggiare una lega tra alcune delle principali potenze europee, quali Papato, Impero, Francia e Spagna, preoccupate dall’espansione veneziana. E’ la lega di Cambrai, nei confronti della quale Venezia otterrà un significativo successo diplomatico nonostante la sconfitta militare di Agnadello. Al centro del dipinto sta il vecchio doge, Leonardo Loredan, eroe della resistenza veneziana e sullo sfondo anziché Agnadello, è rappresentata Padova, riconquistata eroicamente dai veneziani rovesciando le sorti sfortunate della guerra.
Sulla stessa parete si trovano due grandi orologi.
SALA DEL CONSIGLIO DEI DIECI
Il Consiglio dei Dieci fu istituito in seguito alla congiura ordita nel 1310 da Bajamonte Tiepolo e altri nobili per rovesciare le istituzioni statali. Essendo stato costituito per giudicare gli aderenti al complotto, avrebbe dovuto essere un organo provvisorio, ma finì col diventare permanente. Le sue competenze si estesero ad ogni settore della vita pubblica: ortodossia religiosa, politica estera, spionaggio, difesa dello Stato. Da qui il sorgere del mito di un tribunale potente, occhiuto e spietato al servizio dell’oligarchia dominante, le cui sentenze venivano emesse in tempi rapidissimi e con rito segreto. L’assemblea era composta da dieci membri scelti dal Senato ed eletti dal Maggior Consiglio, a cui si aggiungevano il Doge e i suoi sei consiglieri. Di qui i 17 riquadri a semicerchio, che ancora si notano nella sala. La decorazione del soffitto si deve a Gian Battista Ponchino in collaborazione con il giovane Paolo Veronese e Gian Battista Zelotti. Intagliato e dorato, è diviso in 25 scomparti con all’interno divinità ed allegorie che illustrano il potere del Consiglio, il cui compito, ad immagine del tribunale celeste, era di punire i crimini e liberare l’innocente.
L’interpretazione dei singoli quadri è particolarmente complessa, a causa dell’ambiguità delle figure mitologiche e della tendenza degli ideatori dei programmi a sovrapporre significati legati all’ideologia veneziana a quelli tradizionali. Celebri i dipinti di Veronese, dal Vecchio orientale a Giunone che sparge i suoi doni su Venezia, mentre l’ovale al centro con Giove che scende dal cielo a fulminare i vizi è una copia di Jacopo D’Andrea dell’originale di Veronese, portato al Louvre da Napoleone Bonaparte alla fine del Settecento.
Il soffitto e i dipinti della Sala del Consiglio dei Dieci:
1- Copia di Jacopo d'Andrea dal Veronese: Giove fulmina i Vizi
2- Giambattista Ponchino: Mercurio e Minerva
3- Giambattista Ponchino: Nettuno su cocchio marino
4- Giovanni Battista Zelotti: Venere tra Marte e Nettuno
5- Giovanni Battista Zelotti: Giove e Giunone
6- Paolo Caliari il Veronese: Giunone che offre il corno ducale, gemme e oro a Venezia
7- Giovanni Battista Zelotti: Venezia sul globo e sul leone
8- Paolo Caliari il Veronese: Matrona con nell'alto divinità, che spezza ceppi e catene
9- Paolo Caliari il Veronese: Vecchio orientale con turbante seduto presso una giovane donna
Copia di Jacopo d'Andrea da Paolo Caliari detto Veronese: Giove fulmina i vizi
Paolo Caliari detto Veronese: Giove fulmina i vizi (originale conservato al Louvre)
Paolo Caliari detto Veronese: Vecchio orientale e giovane donna (1553-1555)
Paolo Caliari detto Veronese: Giunone che offre il corno ducale, gemme e oro a Venezia (1553-1556)
Anche questa tela venne asportata nel 1797 dalle truppe napoleoniche, per essere trasferita a Bruxelles; è ritornata al suo posto solo nel 1820. Vi è raffigurata Giunone che dall’alto fa piovere su Venezia – rappresentata come d’abitudine nelle vesti di una giovane donna bellissima, vestita “alla moderna”, con ai piedi il leone che simboleggia la città – le insegne del potere, il corno dogale, la corona, il serto d’alloro, ma anche denari e gioielli, a sottolineare la potenza economica dello Stato veneziano. La tela costituisce uno splendido esempio della eccezionale bravura del giovane artista, sia per le vivissime qualità coloristiche, caratterizzate da toni forti e vibranti e da una notevolissima luminosità, che contribuiscono a conferire alla scena una profondità fittizia irraggiungibile per gli altri pittori – il Ponchino e lo Zelotti – impegnati nella decorazione della stessa sala, sia per la raffinata eleganza delle figure, sia infine per la superba capacità di collocare le grandiose figure nello spazio, contro il cielo azzurro, percorso da nubi.
Giambattista Ponchino: Mercurio e Minerva
Giovanni Battista Zelotti: Venere tra Marte e Nettuno
Giovanni Battista Zelotti: Giove e Giunone
Giovanni Battista Zelotti: Venezia sul globo e sul leone
Alle pareti troviamo:
- Marco Vecellio: Incontro di Carlo V e Clemente VII nel 1530 a Bologna
- Francesco e Leandro Bassano: Papa Alessandro III benedice il doge Sebastiano Ziani, vincitore nel 1176 della battaglia di punta Salvore
- Antonio Vassilacchi detto l'Aliense: Adorazione dei Magi
Marco Vecellio: Incontro di Carlo V e Clemente VII nel 1530 a Bologna (totale e due particolari)
Francesco e Leandro Bassano: Papa Alessandro III benedice il doge Sebastiano Ziani (dettaglio)
SALA DELLA BUSSOLA
Inizia da questa sala la serie degli spazi dedicati alle funzioni della Giustizia. Ed è appunto la statua della Giustizia che sormonta la grande bussola lignea che dà il nome alla stanza, maschera l’angolo e conduce nelle stanze dei Tre Capi del Consiglio dei Dieci e degli Inquisitori (visitabili solo nel corso della visita agli Itinerari Segreti).
Questa sala era dunque utilizzata come anticamera per coloro che erano stati convocati dal potente magistrato. E’ dunque un’anticamera, peraltro lussuosamente arredata: il controsenso è solo apparente, perché la magnificenza della decorazione mirava ad enfatizzare la solennità del rituale giuridico-politico dello Stato marciano, che qui trovava uno dei suoi cardini più efficaci e più celebrati.
La sistemazione della sala risale alla metà del XVI secolo; anche questo soffitto fu affidato al Veronese, che ne completò la decorazione nel 1554 con opere volte all’esaltazione del “buon governo” della Serenissima. La tela centrale con San Marco che scende ad incoronare le tre Virtù teologali è una copia di un originale oggi al Louvre.
Il grande camino posto tra le finestre fu ideato da Jacopo Sansovino nel 1553-54.
LE SALE ISTITUZIONALI (primo piano)
LIAGÒ
Nel percorso di visita si accede a questa stanza dopo la visita al secondo piano, provenendo dall’armeria. Nel dialetto veneziano “liagò” significa veranda o terrazzo chiuso da vetrate. Questo ambiente serviva da passeggio e ritrovo per i patrizi nelle intervalli delle frequenti sedute del Maggior Consiglio. Il soffitto di travi dipinte e dorate risale alla metà del Cinquecento, mentre le tele alle pareti sono del Sei-Settecento. Sono esposte qui tre importanti sculture: Adamo, Eva e Portascudo. Sono gli originali delle opere concepite per decorare le facciate dell’Arco Foscari nel cortile del Palazzo; capolavoro di Antonio Rizzo, realizzate tra il 1462 ed il 1471.
Modi di Antonio Balestra: Il doge Giovanni Cornaro assistito dalla Fede e presentato sa San Marco alla Vergine e a San Gregorio Magno
QUARANTIA CIVIL VECCHIA
La Quarantia, creata dal Maggior Consiglio pare già alla fine del XII secolo, era il massimo organo di appello dello Stato veneziano. Originariamente era un unico organismo formato da quaranta membri dotati di ampi poteri, politici e legislativi. Nel corso del XV secolo le quarantie divennero tre: Quarantia Criminal (per le sentenze nell’ambito che oggi chiameremmo penale), Quarantia Civil Vecchia (per le cause civili in territorio veneziano), Quarantia Civil Nuova (per le cause civili in terraferma).
La sala venne restaurata nel XVII secolo, ma reca ancora, dell’antica decorazione, un frammento di affresco visibile vicino all’entrata a destra. Le tele che vi sono collocate attualmente risalgono al Seicento.
SALA DELL’ARMAMENTO O DEL GUARIENTO
La sala, un tempo collegata all’Armeria da una scala, ospita oggi ciò che resta dell’affresco realizzato dal Guariento verso il 1365 per la sala del Maggior Consiglio, quasi completamente distrutto da un incendio del 1577. Fu ritrovato nel 1903 sotto la tela del Paradiso del Tintoretto; anche l’opera del Guariento rappresentava il Paradiso, con al centro Maria in trono incoronata dal figlio, mentre ai due lati estremi, sotto edicole raffiguranti la facciata di una chiesa con portico, si vede l’Annunciazione con l’Angelo Gabriele a sinistra e la Vergine a destra. Intorno, angeli musicanti ed Evangelisti sotto il trono, con a fianco Beati, Patriarchi e Profeti in stalli traforati. I frammenti sono ridotti pressoché a monocromi a causa del calore. A tratti, dall’intonaco caduto emergono le rosse sinopie del disegno preliminare.
Guariento: L'incoronazione della Vergine (e particolare)
SALA DEL MAGGIOR CONSIGLIO
E’ la sala più grande e maestosa di Palazzo Ducale e, con i suoi 53 metri di lunghezza e 25 di larghezza, è una delle più vaste d’Europa. Qui si tenevano le assemblee della più importante magistratura dello stato veneziano: il Maggior Consiglio organismo molto antico, era formato da tutti i patrizi veneziani, a prescindere dal prestigio, dai meriti o dalle ricchezze. Per questo, nonostante col tempo il Senato tendesse a limitarne i poteri, esso fu sempre sentito come il baluardo dell’antica uguaglianza repubblicana, sia pure ristretta al solo ambito nobiliare. Il Maggior Consiglio aveva diritto di controllo su tutte le altre magistrature e cariche dello Stato che, quando esorbitavano troppo dai loro poteri, venivano prontamente ridimensionate. I 1200-2000 nobili che lo costituivano non cessarono mai, infatti, di sentirsi gli autentici depositari del diritto statale. In questa sala si effettuavano anche le prime fasi dell’elezione del doge che proseguivano in quella dello Scrutinio. Le procedure erano estremamente lunghe e complesse per evitare possibili brogli elettorali. Ogni domenica, al suono della campana di San Marco, i membri si riunivano sotto la presidenza del Doge che sedeva al centro della pedana, mentre i consiglieri occupavano seggi disposti secondo la lunghezza della sala in file doppie, dandosi la schiena.
Ristrutturata nel corso del XIV secolo, era decorata dall’affresco del Guariento e da opere dei più famosi artisti dell’epoca. Nel dicembre del 1577 un incendio divampato nella vicina sala dello Scrutinio le distrusse, danneggiando gravemente anche la struttura della sala. Venne quindi avviata una decorazione che vide impegnati artisti come Veronese, Tintoretto, Palma il Giovane, secondo un programma che prevedeva alle pareti episodi della storia veneziana con particolare riferimento ai rapporti col papato e l’impero, sul soffitto le gesta di cittadini valorosi e le Virtù, mentre lo spazio centrale era riservato alla glorificazione della repubblica.
I DIPINTI ALLE PARETI:
PARETE EST (dietro la tribuna):
Jacopo Tintoretto e aiuti: Il Paradiso
Tintoretto e bottega: Paradiso
Lungo un’intera parete, dietro al trono, si staglia la più grande tela del mondo, il Paradiso, realizzata da Jacopo Tintoretto e dalla sua bottega tra il 1588 ed il 1592
Tintoretto cominciò il telero nel 1588, dopo la morte del Veronese che con il Bassano aveva ricevuto l’incarico dell’opera. Ridolfi (1648) dice che Tintoretto “aggravato dagli anni” si valse “per l’ultima mano” dell’aiuto del figlio Domenico. Sulle nuvole stanno gli Evangelisti, i Patriarchi, gli Apostoli, i Padri della Chiesa, i martiri, gli angeli, attratti dal centro dell’insieme dove campeggiano Cristo e la Vergine.. Cristo ha in mano il globo terrestre con la croce, nel ruolo di sol iustitiae e indossa il mantello che il doge portava in San Marco il Venerdì Santo. La vergine si inginocchia davanti a lui intercedendo per Venezia e gli arcangeli Michele e Gabriele volano verso di loro con i simboli di misericordia e giustizia. La figura del “doge celeste” si colloca sopra il trono dove siede il doge, quasi ad indicare come egli sia l’ispiratore del suo operato.
PARETE NORD ( a destra, volgendo le spalle al Paradiso):
Una serie di tele raffigura la partecipazione (leggendaria) del doge Sebastiano Ziani alla lotta tra il papa Alessandro III e l'imperatore Federico Barbarossa. Cominciando dalla tribuna:
1- Benedetto e Carletto Caliari: Il doge Sebastiano Ziani riconosce il papa Alessandro X fuggito a Venezia nel convento della Carità
2- Benedetto e Carletto Caliari: Gli ambasciatori del Papa e di Venezia partono per recare al Barbarossa proposte di pace
3- Leandro Bassano: Il papa in S. Marco dona al doge Ziani il cero bianco, uno dei segni dell'autorità dogale
4- Jacopo Tintoretto e aiuti: Gli ambasciatori ricevuti in Pavia dal Barbarossa chiedono la pace per il papa Alessandro III
5- Francesco Bassano: Il doge, sul punto di salpare con la flotta contro il Barbarossa, riceve dal papa la spada benedetta
6- Paolo Fiammingo: Il doge, sul punto di partire con l'armata, benedetto dal Papa
7- Domenico Tintoretto: Vittoria di punta Salvore e cattura di Ottone, figlio del Barbarossa, e di molti baroni
8- Andrea Vicentino: Il doge presenta Ottone al Papa e riceve l'anello con cui ogni anno si celebrerà poi lo sposalizio del mare
9- Palma il Giovane: Il Papa permette a Ottone di recarsi presso il padre per trattare la pace
10- Federico Zuccari: Nell'atrio di S. Marco il Barbarossa bacia il piede al papa
11- Girolamo Gambarato: Il Papa giunge su navi veneziane ad Ancona, accompagnato dal Barbarossa e dal doge, e dona a questo un'ombrella d'oro, altro simbolo d'autorità
Benedetto e Carletto Caliari: Gli ambasciatori del Papa e di Venezia partono per recare al Barbarossa proposte di pace (2 particolari)
Leandro Bassano: Il papa in S. Marco dona al doge Ziani il cero bianco, uno dei segni dell'autorità dogale
Francesco Bassano: Il doge, sul punto di salpare con la flotta contro il Barbarossa, riceve dal papa la spada benedetta
Paolo Fiammingo: Il doge, sul punto di partire con l'armata, benedetto dal Papa
Domenico Tintoretto: Vittoria di punta Salvore e cattura di Ottone
(sotto, un particolare)
Federico Zuccari: Il Barbarossa bacia il piede al Papa
Girolamo Gambarato: Il Papa giunge su navi veneziane ad Ancona
Palma il Giovane: Il Papa permette a Ottone di recarsi presso il padre per trattare la pace
PARETE OVEST (di fronte al Pardiso):
1- Giulio Del Moro: In S. Giovanni in Laterano il Papa dona al doge 8 stendardi bianchi, rossi e turchini, trombe, cuscino e sedia d'oro
2- Paolo Caliari detto il Veronese: Ritorno vittorioso da Chioggia del doge Andrea Contarini, dopo la disfatta dei Genovesi
3- Antonio Vassilacchi detto l'Aliense: Baldovino incoronato nella piazza di S. Sofia
Sopra le finestre: Marco Vecellio: 2 figure allegoriche
Paolo Caliari detto il Veronese: Ritorno vittorioso da Chioggia del doge Andrea Contarini
PARETE SUD:
Vi è rappresntata la partecipazione di Venezia alla quarta crociata (cominciando ancora dalla tribuna):
1- Carlo Saraceni, opera terminata da Jean Le Clerc: Il doge Enrico Dandolo nonagenario e i capitani dei Crociati giurano in S. Marco i patti
2- Andrea Vicentino: I Crociati, al comando del doge, assalgono Zara
3- Domenico Tintoretto: Resa di Zara
4- Andrea Vicentino: Alessio Comneno, figlio del diseredato imperatore di Costantinopoli, giunge a Zara a invocare l'aiuto dei Crociati per scacciare dal trono lo zio Alessio usurpatore e rimettervi il proprio padre Isacco
5- Palma il Giovane: Assalto di Costantinopoli
6- Domenico Tintoretto: Presa di Costantinopoli
7- Andrea Vicentino: In S. Sofia i Crociati eleggono imperatore d'Oriente Baldovino di Fiandra
(il ciclo si completa con la tela dell'Aliense nella parete Ovest)
Carlo Saraceni-Jean Le Clerc: Il doge Enrico Dandolo nonagenario e i capitani dei Crociati giurano in S. Marco i patti
Andrea Vicentino: I Crociati, al comando del doge, assalgono Zara (particolare)
Andrea Vicentino: I Crociati, al comando del doge, assalgono Zara (particolare)
Domenico Tintoretto: Resa di Zara
Palma il Giovane: Assalto di Costantinopoli
Domenico Tintoretto: Presa di Costantinopoli
Immediatamente sotto il soffitto corre un fregio con i ritratti dei primi 76 dogi della storia veneziana (gli altri si trovano nella sala dello Scrutinio). Si tratta di effigi immaginarie, visto che quelle precedenti il 1577 furono distrutte nell’incendio, commissionate a Jacopo Tintoretto ma eseguite in gran parte dal figlio Domenico. Sul cartiglio che ogni doge tiene in mano sono riportate le opere più importanti del suo dogado. Il doge Marin Faliero, che tentò un colpo di stato nel 1355, è rappresentato da un drappo nero: condannato in vita alla decapitazione e alla damnatio memoriae, ossia alla cancellazione totale del suo nome e della sua immagine, come traditore dell’istituzione repubblicana. Su fondo nero c'è l'iscrizione: «Hic est locus Marini Falethri, decapitati pro criminibus».
Sul soffitto, in corrispondenza di ogni ritratto, il relativo stemma.
Domenico Tintoretto: Il doge Francesco Donato
Domenico Tintoretto: Il doge Giovanni Mocenigo
Domenico Tintoretto: Il doge Marco Barbarigo
Domenico Tintoretto: Il doge Pietro Lando
I ritratti di Andrea Dandolo e di Marin Faliero
1- Paolo Caliari detto il Veronese: Antonio Loredan dirige l'assalto per liberare Scutari dall'assedio di Maometto II
2- Francesco Bassano: L'esercito e la flotta veneziani, comandati da Damiano Modo, espugnano le difese del duca Ercole I d'este a Polesella
3- Jacopo Tintoretto e aiuti: Vittore Soranzo porta la flotta veneziana sul Po alla vittoria di Argenta contro le milizie del duca Ercole I d'Este
4- Jacopo Tintoretto e aiuti: Jacopo Marcello conquista Gallipoli in Puglia sgominando le truppe aragonesi del re di Napoli
5- Francesco Bassano: Giorgio Cornaro e Bartolomeo d'Alviano sconfiggono nel Cadore gli imperiali di Massimiliano I
6- Palma il Giovane: Andrea Gritti riprende Padova alle truppe della lega di Cambrai entrandovi da porta Codalunga
7- Palma il Giovane: Venezia, incoronata dalla Vittoria, accoglie i popoli vinti e le province soggette che circondano il suo trono regale
8- Jacopo Tintoretto e aiuti: Venezia, circondata da deità marine, porge un ramo d'ulivo al doge Nicolò Da Ponte che le presenta gli omaggi del senato e i doni delle province soggette
9- Paolo Caliari detto Veronese: Apoteosi di Venezia circondata da divinità e incoronata dalla Vittoria
10- Paolo Caliari detto Veronese: Pietro Mocenigo prepara l'assalto per prendere Smirne ai Turchi
11- Francesco Bassano: Michele Attendolo guida i Veneziani alla vittoria di Casalmaggiore sui Viscontei
12- Jacopo Tintoretto e aiuti: Stefano Contarini conduce la flotta veneziana del lago di Garda alla vittoria di Riva sulla flotta viscontea
13- Jacopo Tintoretto e aiuti: I Veneziani guidati da Francesco Barbaro aiutano i Bresciani a rompere l'assedio di Filippo Maria Visconti
14- Francesco Bassano: Il Carmagnola guida i Veneziani alla vittoria di Maclodio contro le truppe milanesi di Filippo Maria Visconti
15- Palma il Giovane: Francesco Bembo guida la flotta veneziana del Po alla vittoria di Cremona contro i Viscontei
L’ultimo grande impegno di Veronese a Palazzo Ducale fu la realizzazione, tra il 1579 e il 1582, del ciclopico programma di ridecorazione delle grandi sale assembleari (Maggior Consiglio e Scrutinio) dopo l’incendio scoppiato nella notte del 20 dicembre del 1577. All’architetto, pittore e cartografo veronese Cristoforo Sorte fu dato incarico del disegno del soffitto, suddiviso in riquadri e scomparti e ricchissimamente ornato di sculture e intagli a volute, mascheroni, cartouches e fregi tutti dorati.
Paolo realizzò con l’immenso ovale del Trionfo di Venezia (Pax Veneta), che misura più di nove metri sull’asse maggiore e quasi sei sul minore, il dipinto che meglio si adatta all’elaborato schema di cornici di gusto manieristico progettato dal Sorte; infatti la grandiosa architettura di Paolo, con cornicioni e terrazze rette da enormi colonne tortili, pare continuare, all’interno della tela, le fantasiose strutture lignee esterne.
Su una nube troneggia la figura di Venezia, contornata dalle divinità che ne simboleggiano il potere economico e politico, raffigurate come una corte opulenta di magnifiche donne ignude e di magniloquenti signori. Più sotto, dalla balconata, si affacciano numerosi nobiluomini, dame elegantissime e alcuni prelati, mentre nel livello inferiore hanno trovato posto il popolo e i guerrieri, montati su scalpitanti destrieri. Nell’insieme trionfa ancora una volta la splendida felicità decorativa veronesiana, che si fa gioisa grazie alla qualità luminosissima del colore, steso a larghe campiture con ripetuti effetti di cangiante e di controluce.
Ai lati di questo ovale sono collocate altre due tele di Paolo con scene belliche (Difesa di Scutari e Presa di Smirne) di minor importanza e interesse, anche se non prive di qualità. Va infine ricordato che Paolo partecipò (e vinse, sia pure assieme a Jacopo Bassano) il primo dei concorsi per la realizzazione del cosiddetto Paradiso sulla parete di fondo del Maggior Consiglio, ma non se ne fece nulla. Dopo la morte di Paolo (1588) fu bandito un altro concorso, vinto dal Tintoretto, che realizzò la celebre tela oggi esistente.
Paolo Caliari detto Veronese: Apoteosi di Venezia
(sotto un particolare)
Jacopo Robusti detto Tintoretto: Vittore Soranzo porta la flotta veneziana sul Po alla vittoria di Argenta
Jacopo Robusti detto Tintoretto: Venezia porge un ramo d'ulivo al doge Nicolò Da Ponte
SALA DELLO SCRUTINIO
Si entra, da questa sala, nell’ala del palazzo edificata nel XV secolo. Erano custoditi qui, prima della costruzione della Libreria Marciana, i preziosi codici che il Petrarca e il cardinal Bessarione avevano lasciato in eredità allo stato veneziano. In seguito, nel 1532, si decise di svolgere in questa sala anche gli scrutini delle votazioni per le lezioni delle varie cariche statali, compresa quella del doge.
L’attuale decorazione venne eseguita tra il 1578 e il 1615. Il ricco soffitto, disegnato dal pittore-cartografo Cristoforo Sorte, illustra diverse vittorie militari dei veneziani.
1- Andrea Vicentino: Vittoria sui Pisani nelle acque di Rodi
2- Francesco Montemezzano: Acri tolta ai Genovesi
3- Niccolò Bambini: Il doge Domenico Michiel ricusa il dominio di Sicilia
4- Aliense: Morte di Ordelaffo Falier sotto le mura di Zara
5- Camillo Ballini: Vittoria dei Veneziani sui Genovesi presso Trapani
6- Giulio del Moro: I Veneziani comandati da Giovanni Soranzo tolgono Caffa ai Genovesi
7- Giulio del Moro: Il doge Enrico Dandolo rifiuta la corona d’Oriente
8- Aliense: Pietro Ziani rifiuta il dogado per farsi monaco
9- Francesco Bassano: I Veneziani conquistano Padova a Francesco da Carrara
Tutt’intorno al soffitto ci sono delle Virtù degli stessi artisti, mentre attorno ai dipinti numerati 1, 5 e 9 ci sono 12 figure allegoriche attribuite a Giulio Licinio. Fra le pareti e il soffitto continua la fascia con i ritratti dei dogi veneziani (da Lorenzo Priuli a Lodovico Manin).
Alle pareti, nel fondo, un solenne arco trionfale di tipo classico romano fu eretto in onore di Francesco Morosini il Peloponnesiaco, morto nel 1494 durante la vittoriosa guerra con la quale i veneziani strapparono ai Turchi la Morea; l’arco è decorato da allegorie del doge vittorioso.
Alla parete di fronte all’arco di trionfo, si trova il Giudizio Universale di Palma il Giovane, mentre alle pareti laterali 10 grandi tele illustrano le battaglie vinte dai Veneziani dall’809 al 1656: particolarmente suggestivo il dipinto con La battaglia di Lepanto di Andrea Vicentino, del 1571, in cui il doge Sebastiano Venier è rappresentato armato a capo scoperto sulla poppa della sua galea a destra in primo piano. Potrebbe stupire tutta questa celebrazione della virtù guerriera in una sala che, per la sua delicata funzione, avrebbe piuttosto richiesto una decorazione volta all’esaltazione della saggezza politica, ma questo ambiente fu progettato appunto dopo la battaglia di Lepanto (1571) in un momento perciò di grande esaltazione e orgoglio per la vittoria ottenuta.
Notevole forza di suggestione ha anche La vittoria dell’esercito veneziano a Zara contro gli Ungheresi, di Jacopo Tintoretto, dipinta tra il 1582 ed il 1587. gli altri dipinti sono di Sante Peranda, l’Aliense, Marco Vecellio, Pietro Bellotti, Pietro Liberi e altri.
Andrea Michieli detto Vicentino: La battaglia di Lepanto
(sotto, due particolari)
Palma il Giovane: Giudizio Universale
SALA DELLA QUARANTIA CRIMINAL E SALA DEI CUOI
L’organismo della Quarantia Criminal era di grande importanza: poiché i suoi membri facevano parte anche del Senato, potevano essere investiti anche di poteri legislativi. La sala è decorata da stalli lignei del XVII secolo; la stanza successiva ne costituiva l’archivio: si presume perciò che le sue pareti fossero rivestite di scaffalature ed armadi, dei quali vuol rendere un’idea quello addossato al muro di fondo: mobile non originario, come del resto i “cuoridoro”, cioè i cuoi ricamati in oro sulle altre pareti.
Sala della Quarantia Criminal
Sala dei cuoi
SALA DEL MAGISTRATO ALLE LEGGI
Questa era la sala che ospitava la magistratura dei Conservatori ed esecutori delle leggi e ordini degli uffici di San Marco e di Rialto, creata nel 1553 ed affidata a tre patrizi che avevano il compito di far osservare la normativa che regolava l’avvocatura. In una città-stato come Venezia, città mercantile per eccellenza, il settore giudiziario rivestiva enorme importanza (si pensi in primo luogo allo sterminato numero di cause, liti e processi innescati dalla presenza di un vasto mercato come quello di Rialto), anche perché basato non sul diritto imperiale o comune o romano, ma su di una prassi del tutto peculiare alla città lagunare.
In questa stanza sono stati collocati gli straordinari trittici di Hieronymus Bosch, lasciati in eredità a Venezia dal cardinale Domenico Grimani. Quattro tavole raffigurano la Caduta dei dannati, l’Inferno, il Paradiso terrestre e l’Ascesa dei beati all’Empireo. Sempre di Bosch sono il Trittico degli eremiti e il Trittico di Santa Giuliana.
Hieronymus Bosch: Paradiso terrestre (1490 circa)
Uomini e donne, accompagnati da angeli, si muovono in un paesaggio collinoso, a balze, e volgono lo sguardo verso una fontana della vita disposta in alto, sulla sommità di una collina. Sullo sfondo a destra si vede un leone nell’atto di divorarne un altro, simbolo dell’anticipo della corruzione che verrà a interrompere l’esistenza ideale del paradiso.
Hieronymus Bosch: Ascesa all’Empireo (1490 circa)
Quest’opera è resa impressionante dalla straordinaria invenzione dell’ingresso a cilindro a fasce concentriche, probabilmente desunto dalla tradizione delle miniature tardo-medievali. Bosch trasforma il richiamo iconografico in una creazione fantastica: le anime sembrano come attratte. Risucchiate dalla luce e dal colore, si muovono a zig-zag, dal basso verso l’alto, con graduale perdita del loro peso e degli angeli accompagnatori, fino al raggiungimento della luce.
Hieronymus Bosch: Caduta dei dannati (1490 circa)
Anche in questo caso siamo di fronte a una straordinaria invenzione: le anime non ascendono, ma all’opposto sembrano sprofondare, inseguite dai demoni, nell’oscurità di un paesaggio visionario. I toni cupi, accesi solo da qualche bagliore che lascia intravedere i contorni delle poche figure, conferiscono alla scena un’assoluta drammaticità.
Hieronymus Bosch: Inferno(1490 circa)
Abitualmente raffigurato da Bosch con un’infinità di ignudi e di demoni torturatori, l’Inferno qui è ridotto all’essenziale, quasi a un’unica figura in primo piano dalla stupefacente modernità: l’angoscioso sogno, o meglio incubo, dell’anima ignuda che si sorregge il capo quasi in atto di totale scoramento, mentre un diavolo la tormenta. Vicino qualche altra figura di dannato e di demone che galleggiano nel mare infernale e sullo sfondo una rupe spaventosa e fiabesca con fiamme sulla cima e bagliori intorno a rischiarare la totale oscurità.
Hieronymus Bosch: Trittico degli eremiti: San Gerolamo (1493 circa)
Questo è il pannello centrale di un trittico costituito dai tre anacoreti, raffigurati ognuno su una tavola. Nel pannello centrale è raffigurato san Gerolamo inginocchiato tra le rovine di un edificio pagano e in preghiera, con il crocifisso poggiato sui resti di un trono che funge da altare. I rilievi su questo alludono alle possibilità di redenzione (Giuditta e Oloferne e un cavaliere con un liocorno). Intorno sono disseminati gli elementi malefici: la innaturale vegetazione, lo zoccolo dell’idolo, con la figura di un adulatore del sole e della luna, e il rilievo nella parte inferiore del trono con un uomo che si tuffa in un alveare coprendosi di miele, variamente interpretato dalla critica come allusione all’amore carnale o in termini alchemici con significato di unione sessuale.
Hieronymus Bosch: Trittico degli eremiti: Sant’Antonio (1493 circa)
Sant’Antonio è immerso in un paesaggio notturno con un villaggio in fiamme sullo sfondo, con chiaro riferimento al fuoco suo abituale attributo, collegato alla malattia detta “fuoco di sant’Antonio” o al suo potere di proteggere dalle fiamme. Il santo è raffigurato nei pressi di uno stagno, nell’atto di attingere l’acqua impura con una brocca; intorno a lui le visioni che tormentano le sue ascetiche meditazioni, in primo luogo la donna nuda nell’acqua presso l’albero cavo, qui rappresentata insieme a un uomo, seminascosto dal drappeggio. Sotto la figura femminile si trova quella di un diavolo-pesce nell’atto di versare vino da una brocca e di numerosi altri demoni-grilli: il diavolo nano che legge un messale, un demone pavone, un grillo formato solo dalla testa e dalle gambe.
Hieronymus Bosch: Trittico degli eremiti: Sant’Egidio (1493 circa)
Sant’Egidio prega in una cappella costituita da una grotta, inginocchiato davanti ad un altare dal quale pende un rotolo che, in base alla Leggenda aurea, sarebbe stato deposto da un angelo e recherebbe tutti i nomi di coloro che saranno salvati per intercessione del santo. Egli è trafitto nel petto da una freccia a simboleggiare quella destinata dai cacciatori alla sua cerbiatta nutrice, rappresentata ai suoi piedi.
Hieronymus Bosch: Trittico della martire crocifissa (1497 circa)
Sullo scomparto di sinistra è rappresentata una città in fiamme occupata dai demoni e abbandonata dagli abitanti terrorizzati. Il soggetto non ha alcuna relazione con lo scomparto centrale nel quale figura la crocifissione di una santa (santa Liberata o santa Giulia). Nello scomparto di destra sono dipinte, in primo piano, due figure (un monaco e un soldato), sullo sfondo un porto con navi affondate.
Le incongruenze tra le ante laterali e lo scomparto centrale hanno fatto pensare che le ante fossero state preparate per un’altra opera e accostate solo in seguito al pannello centrale.
Sulla parete opposta troviamo altri due esponenti della pittura fiamminga: il Monogrammista J S il cui Inferno, a differenza di quello di Bosch, si popola di figure fantastiche e bizzarre e Quentin Metsys nel cui Cristo deriso il contrasto tra bene e male si identifica con quello tra il bello, rappresentato dal Cristo, ed il brutto dei suoi tormentatori.
Quentin Metsys: Cristo deriso
LE SALE ISTITUZIONALI NEL PIANO DELLE LOGGE
SALA DEI CENSORI
Torniamo a percorrere le sale dedicate agli organi di giustizia. La magistratura dei Censori nacque nel 1517, su iniziativa di Marco Foscari di Giovanni, cugino del doge Andrea Gritti e nipote del grande Francesco Foscari. La sua denominazione e le incombenze sono riconducili alla temperie politico-culturale umanistica: i Censori non erano infatti un organo giudicante, ma consulente, soprattutto sul piano morale, come si evince dal numero dei suoi membri, che erano due, ossia teoricamente incapaci di esprimere una maggioranza. Loro compito era quello di reprimere il broglio, la corruzione elettorale, difendendo così l’integrità delle istituzioni pubbliche.
Alle pareti una serie di dipinti di Domenico Tintoretto ritraggono alcuni magistrati e, al di sotto, gli stemmi di coloro che ricoprirono tale carica.
SALA DELL’AVOGARIA DE COMUN
L’Avogaria de Comun era un’antichissima magistratura, come indica lo stesso nome: risale infatti all’epoca comunale (XII secolo). Compito dei tre avogadori era di tutelare il principio di legalità, ossia la correttezza nell’applicazione delle leggi. Gli avogadori non raggiunsero mai il prestigio ed il potere dei dieci, tuttavia rimasero pur sempre una delle magistrature più autorevoli sino alla caduta della Repubblica. Vegliavano inoltre sulla purezza del corpo aristocratico, ossia sulla legittimità dei matrimoni e delle nascite dei patrizi iscritti al Libro d’oro, la cui compilazione era appunto affidata all’Avogaria.
In questa sala alcuni avogadori sono ritratti in atto di devozione di fronte alla Vergine, al Cristo risorto e ai santi.
La classe nobiliare veneziana trasse origine dalla “Serrata” del Maggior Consiglio del 1297, ma solo più tardi, agli inizi del ‘500, venne decisa una serie di restrizioni a tutela dell’aristocrazia: vietati i matrimoni tra patrizi ed appartenenti a diverse classi sociali, incrementati i controlli sui titoli di nobiltà, ecc. La competenza di questa materia fu delegata all’Avogaria del Comun, cui venne pure affidata la compilazione del Libro d’oro delle nascite, nel quale erano registrate le fedi di battesimo dei patrizi; divenne poi obbligatorio per ogni patrizio produrre all’Avogaria pure il certificato di matrimonio, qualunque fosse la condizione sociale della moglie. Esisteva inoltre un Libro d’argento in cui erano descritte le famiglie dell’ordine cittadino originario, ossia quelle che, accanto ai requisiti di “civiltà” e “onorevolezza”, potevano vantare un’antica origine veneziana: esse fornivano allo Stato i quadri della burocrazia, a cominciare dalla Cancelleria ducale.
Il Libro d’oro e quello d’argento erano custoditi in uno scrigno collocato in questa sala, dentro un armadio che conteneva anche tutti i documenti inerenti alla legittimità dei titoli. Quello che si vede qui occupa i tre lati di una nicchia, è settecentesco, laccato di bianco con decorazioni in oro.
SALA DELLA MILIZIA DA MAR Formato da una ventina di patrizi tratti dal Senato e dal Maggior Consiglio, questo organo, istituito a metà del XVI secolo, aveva il compito di reclutare gli equipaggio per le galere da guerra, compito non facile, dato il gran numero di persone necessarie all’ampia flotta veneziana. Al contrario di quanto si potrebbe credere, venivano assoldati in primo luogo vogatori liberi tratti dal mondo produttivo veneziano, ossia dalle corporazioni di arti e mestieri che erano ritenute le più dirette interessate alla salvaguardia della patria. Affine a questa magistratura era quella denominata dei Provveditori all’armar, le cui competenze concernevano però soprattutto l’allestimento e il disarmo delle navi, cioè gli scafi e le provviste di bordo.
Gli arredi a dossali sono cinquecenteschi, mentre le torciere a muro risalgono al XVIII secolo.
L’ARMERIA
Le sale dell’Armeria costituiscono oggi un prezioso museo di armi e munizioni di diversa provenienza, il cui nucleo è documentato fin dal XIV secolo; al tempo della Repubblica era affidato alle cure del Consiglio dei X e caratterizzato da strumenti bellici prontamente fruibili da parte degli armigeri di guardia al Palazzo e, nelle congiunture più delicate, dagli arsenalotti, cioè le maestranze, estremamente qualificate e organizzate del grande complesso dell’Arsenale. Alla morte del doge, ad esempio, le porte del Palazzo venivano sbarrate e la loro custodia affidata appunto agli arsenalotti; di norma, poi, un gruppo di questi presidiava la Loggetta del campanile durante le sedute del Maggior Consiglio. La collezione d’armi, arricchita da preziosi cimeli, venne parzialmente dispersa dopo la fine della repubblica. Oggi consta di oltre duemila pezzi.
SALA I – La prima sala è detta del Gattamelata per l’armatura finemente cesellata e attribuita al condottiero Erasmo da Narni, detto appunto Gattamelata, che vi è esposta, assieme ad una notevole serie di altri esemplari cinquecenteschi da combattimento pesante e leggero, a cavallo o a piedi e da torneo. Curiosa quella da bambino (o da nano?) rinvenuta sul campo di battaglia di Marignano nel 1515. La sala ospita inoltre vari modelli di spade di varie epoche e modelli di balestre con i caratteristici turcassi in cuoio dipinto o stampato per il ricovero delle frecce, oltre a lanterne di navi turche strappate al nemico, con la caratteristica mezzaluna in cima.
Sopra e sotto: Lanterne di navi turche
SALA II – Anche in questa sala campeggia un cimelio turco: è uno stendardo triangolare conquistato durante la celeberrima battaglia di Lepanto del 1571. Decorato da una bordatura su cui sono stati ricamati dei versetti del Corano, presenta al centro un’iscrizione che rende omaggio ad Allah ed al suo profeta Maometto. Notevole è inoltre l’armatura di Enrico IV di Francia, da questi donata alla repubblica nel 1604. La sala ospita inoltre una quattrocentesca armatura per testa di cavallo, alcuni grandi spadoni e due alabarde da fuoco, riccamente decorate.
Armatura di Enrico IV di Francia
SALA III – Il busto di Francesco Morosini, collocato in una nicchia sul fondo, dà il nome a questa sala. Ammiraglio, nominato comandante supremo della flotta veneziana durante la guerra contro i turchi dal 1684 al 1688, riconquistò il Peloponneso, cosa che gli valse il soprannome onorifico di Peloponnesiaco. Divenne poi doge nel 1688. In virtù delle sue numerose vittorie gli venne conferito ancora vivente l’onore di un monumento, caso unico nella storia veneziana. In questa sala sono ordinate e raccolte numerose spade, alabarde, faretre e balestre, spesso recanti incisa o dipinta la sigla CX. La stessa sigla compare anche sugli stipiti delle porte, ad ulteriore testimonianza della potestà del Consiglio dei Dieci. Notevole è anche la colubrina, piccolo cannone della metà del XVI secolo, finemente decorata e un archibugio a venti canne – dieci più lunghe e dieci più corte – del XVII secolo, che potrebbe essere considerato l’antenato della mitragliatrice.
Colubrina
SALA IV – La stanza presenta una sorprendente collezione di armi miste: balestre da fuoco del XVI secolo, mazzi d’arma da fuoco, accette e spade da fuoco, archibugi del XVII secolo; vi è poi una “cassetta del diavolo” del XVI secolo, insidiosa trappola mortale che nasconde al suo interno quattro canne di pistola che fanno fuoco alla sua apertura e una freccia avvelenata. Non mancano in questa sala gli strumenti di tortura, una cintura di castità e una serie di armi proibite per le loro piccole dimensioni che le rendevano facilmente occultabili, originariamente appartenenti alla famiglia dei Carrara di Padova, vinta dai veneziani nel 1405.
Trappola detta "cassetta del diavolo"
Il ponte dei Sospiri fu realizzato nel 1614 per unire il Palazzo Ducale all’edificio adiacente destinato alle Prigioni Nuove. Chiuso e coperto, è costituito da due corridoi separati da una parete. Uno collega le Prigioni alle sale del Magistrato alle Leggi e della Quarantia Criminal al piano nobile del Palazzo Ducale; l’altro mette in comunicazione le Prigioni con le sale dell’Avogaria e col Parlatorio. Entrambi i corridoi, inoltre, sono collegati alla scala di servizio che dai Pozzi sale fino ai Piombi.
Il celebre soprannome risale all’epoca romantica e si riferisce al sospiro del prigioniero che, uscendo dal tribunale, oltrepassa il canale attraversando il ponte per raggiungere la cella nella quale sconterà la pena e può appena intravedere , attraverso le piccole finestre, la laguna, San Giorgio, la libertà.
Il Ponte dei Sospiri e il palazzo delle Prigioni
Chi entrava in prigione era costretto a pagare alle guardie la cosiddetta “bella entrada”, o “gobbo”, o “bevarazzo”, per una bevuta comune fra carcerieri e carcerati.
LE PRIGIONI NUOVE
Il Palazzo Ducale, sede di tutti gli istituti governativi della Repubblica, compresi quello della Giustizia, ospitava anche i luoghi di pena e detenzione. Dalla seconda metà del Cinquecento si decise di costruire un nuovo edificio al di là del rio di Palazzo, completamente destinato a funzioni carcerarie, con il fine di migliorare le condizioni di vita dei prigionieri con celle più grandi, illuminate e areate. Nacquero così le Prigioni Nuove in cui, però, non tutti i settori di detenzione risposero ai criteri di partenza. Ogni cella era rivestita, secondo la tradizione, con tavole di legno di larice incrociate e inchiodate fittamente lungo le pareti, sul pavimento e sulla volta. Le Prigioni Nuove rappresentarono per l’epoca uno dei primi esempi, se non il primo in Europa, di costruzione isolata a blocco, unifunzionale, destinata a prigione di Stato.
Nelle immagini qui sotto, vari ambienti delle Prigioni Nuove
ITINERARI SEGRETI
Gli Itinerari Segreti di Palazzo Ducale si snodano lungo alcune delle stanze in cui, nei secoli della Serenissima, si svolgevano attività delicate e importanti legate all’amministrazione dello Stato e all’esercizio del potere. E’ possibile effettuare la visita agli Itinerari Segreti solo su prenotazione e con accompagnatore specializzato, in orari e a condizioni particolari.
Tra i luoghi che si possono visitare con questo itinerario c’è la Stanza della Tortura, chiamata anche Camera del Tormento, che era collegata direttamente alle prigioni gli interrogatori avvenivano in presenza dei magistrati giudicanti; lo strumento più adottato era la corda, alla quale l’accusato veniva appeso. La tortura, pur praticata anche a Venezia, non ha qui caratteristiche di particolare efferatezza e viene progressivamente abbandonata, a partire dal Seicento, fino a venir praticamente abolita nel secolo successivo.
La Camera del Tormento
Dalla sala della tortura si passa direttamente alla zona dei Piombi. Il nome deriva dalla copertura a lastre di piombo del tetto. Erano qui sistemate alcune celle detentive, riservate ai prigionieri del Consiglio dei Dieci, accusati di misfatti prevalentemente politici, o comunque per pene non lunghe o reati non gravi o per detenuti in attesa di giudizio. Le celle erano sei o sette, ricavate suddividendo lo spazio del sottotetto con tramezze di legno, fittamente inchiodate e irrobustite da grosse lamine di ferro. Descritti da Giacomo Casanova che vi fu detenuto, i Piombi offrivano ai prigionieri condizioni di gran lunga migliori di quelle dei condannati ai Pozzi, terribili celle al piano terra di Palazzo Ducale.
Un’altra sala che si può visitare negli Itinerari Segreti è quella degli Inquisitori. Temutissima magistratura istituita nel 1539 per tutelare la riservatezza dell’operato statale (la sua dizione esatta è “Inquisitori alla propagazione dei segreti dello Stato”), era costituita da tre membri, due scelti all’interno del Consiglio dei Dieci e uno tra i consiglieri Ducali. Dovevano garantire obiettività, competenza ed efficienza nel loro operare, oltre alla segretezza assoluta sulle loro attività e sui fatti di cui venivano a conoscenza. Dotati di ampia discrezionalità, potevano venire a conoscenza delle informazioni con qualunque mezzo, incluse delazione e tortura.
Il soffitto della sala è decorato con opere di Tintoretto eseguite tra il 1566 e il 1567.
Altra sala segreta è quella dei Tre Capi, magistrati scelti ogni mese tra i dieci membri del Consiglio dei Dieci, cui spettava la preparazione dei processi e l’attuazione delle risoluzioni del Consiglio, da effettuare nel più breve tempo possibile, secondo priorità stabilite da loro stessi.
La decorazione del soffitto, eseguita tra il 1553 e il 1554, è dovuta a Giambattista Zelotti, a Veronese e a Giambattista Ponchino.
LA PORTA DELLA CARTA
Veduta del porticato (o arco) Foscari dalla Scala dei Giganti
Per uscire da Palazzo Ducale si attraversa il porticato Foscari e si oltrepassa la Porta della Carta, che in realtà sarebbe l’entrata principale al Palazzo; si trova accanto alla basilica di San Marco, su un angolo della quale è situato il gruppo scultoreo in porfido rappresentante i Tetrarchi (l’opera del IV secolo è visibile in basso a sinistra nella foto). Chiamata così da un probabile deposito delle “carte” dell’Archivio statale, qui ubicato, o dalla presenza degli uffici degli scrivani, la Porta della Carta fu commissionata a Giovanni e Bartolomeo Bon nel 1438. Originariamente policroma, è decorata nelle nicchie con statue rappresentanti la Temperanza, la Fortezza, la Prudenza e la Carità.
Sull’occhio dell’arco inflesso vi è san Marco e sul vertice del coronamento la Giustizia. Sopra il portale, il doge Foscari inginocchiato di fronte al leone andante è una copia di Luigi Ferrari (1885) realizzata in sostituzione dell’originale, distrutto durante i moti del 1797.