POSTATO dal prof d’italiano:
Come diceva Frank Zappa in una sua canzone (lascio a voi la traduzione)
What’s the ugliest
Part of your body?
Some say your nose,
Some say your toes,
But I think it’s your mind!
Sono parole che io condivido al 100% e che uso come punto di partenza per un nuovo discorso da fare con voi, sollecitato da alcuni articoli di giornale di questi giorni e da una “cosa” emersa in classe (oltre a quell’orribile usanza di grattarsi la pelle fino a sanguinare!). Io penso che sia proprio il cervello quella cosa che spinge le persone a quei comportamenti, frequenti purtroppo anche a scuola, che chiamiamo genericamente bullismo; perché solo la stupidità e la cattiveria (discendente dalla stupidità) possono spingere gli esseri umani a certi comportamenti.
Non aggiungo altro; intanto voi leggete questi 2 articoli.
1° articolo (apparso su la Repubblica il 3 dicembre 2012):
Tredicenne picchiata per un frappé
sputi e insulti da un branco di bulle
Di Lorenza Pleuteri
BOLOGNA - Botte, sputi, insulti. L'obbligo di mettersi in ginocchio e di chiedere scusa. Un'ora di umiliazioni, tra le persone che in un pomeriggio di fine settembre stavano entrando nel centro commerciale Le Befane di Rimini e hanno tirato dritto. Per una questione da nulla una tredicenne è stata maltrattata e vessata da quattro "bad girl" della sua età spalleggiate da un maschio. Ancora una violenza, soprusi tra adolescenti dopo il caso del giovane romano suicida perché additato come gay, nei giorni scorsi anche a Vicenza un giovane aveva chiesto aiuto dopo che a scuola era diventato oggetto di insulti e ironie da parte dei compagni perché indicato come omosessuale. A Rimini, il ragazzo e le "bulle", sono state identificate e rintracciate dagli investigatori. Hanno tra i 13 e i 17 anni. Tranne la più piccola, non imputabile per via dell'età, dovranno rispondere di lesioni, ingiurie, violenza privata, omissione di soccorso e minacce. «Era uno scherzo», continuano a giustificarsi quelle che ancora non si sono rese conto della gravità dell'aggressione. Altre hanno compreso di aver passato i limiti. Il pretesto è l'offerta di un frullato. La ragazzina ne ordina uno. Non le va più, lo lascia a metà. Chiede: «Qualcuno vuole finirlo?». Si sente rispondere di no, in malo modo. E si trovata accerchiata dalle ragazze e dal loro amico, persone che conosce. «Ci hai guardato male». E scatta la punizione. Il frullato rovesciato addosso. Un'altra bibita versata in testa. Le parole di scherno. Gli sputi. Le spinte. La tredicenne si rifugia in bagno. Si ripulisce e prende fiato. Torna per chiedere il perché di tanta furia. Le amiche con cui è arrivata al centro commerciale sono solo capaci di dirle, inutilmente, di scappare. E sono altre botte, altri sputi, altre offese. Viene costretta a inginocchiarsi e a supplicare il perdono. Nessuno interviene, nemmeno ora. Spuntano invece i cellulari. «Stavano per riprendere la scena per metterla su You Tube - azzarderà qualcuno - e non lo hanno fatto per evitare guai». La tredicenne pesta e umiliata torna in bagno. Piange. Cade, batte la testa, perde conoscenza. A soccorrerla, dando l'allarme, è una donna che la trova svenuta entrando nella toilette.
2° articolo (apparso su la Repubblica il 5 dicembre 2012):
"Sei anni di umiliazioni perché gay"
L'inferno a scuola di un ragazzo
L'inferno a scuola di un ragazzo
di PAOLO BERIZZI
UDINE - Un giorno nell'ora di matematica uno l'ha chiamato "Barbie". Adesso sorride. "Mica è brutta la Barbie, ma io sono un uomo, e sono felice di esserlo". Altri compagni, meno sofisticati, come in una gara di freccette si sfidavano a fare centro infilzando l'obiettivo con gli epiteti più triviali e banali. "Frocio". "Finocchio". "Checca". "Fenóli" (in dialetto friulano). In classe. "Lo scrivevano sulla lavagna, oppure via sms". Notevole quel "sei un errore della natura", qui siamo nelle scienze antropologiche, accompagnato da un benevolo "meriti tutta la sfiga del mondo". Sgombriamo il campo dallo stereotipo. Francesco (nome di fantasia) non è un "ragazzo col rossetto" o "coi pantaloni rosa". I suoi gesti non sono effeminati e dopo sei anni di insulti ha tirato fuori un carattere tosto, un muro frangiflutti contro la ridicolizzazione becera. Ha 20 anni, bel ragazzo, figlio unico, single, padre dirigente, mamma "artigiana alimentare". Frequenta l'ultimo anno "là dentro", che sarebbe l'istituto tecnico di Udine dove da quando aveva 14 anni lo prendono in giro perché è gay. Ha passato momenti difficili. Ora, seduto a un tavolo del circolo Arci "Mis (s) Kappa", fa coming out mediatico per combattere il bullismo omofobico. La stessa piaga che, forse - si indaga per istigazione al suicidio - è costata la vita di Andrea S., il quindicenne del liceo Cavour che a novembre si è impiccato in casa con una sciarpa.
Partiamo da Andrea.
Partiamo da Andrea.
"Fa male pensare che chi gli stava vicino non si sia accorto del suo disagio. Non è una critica ai genitori. Penso soprattutto, in questo caso, agli insegnanti".
I tuoi come si sono comportati? Quando i compagni ti insultavano sono intervenuti?
"Mai. Anzi, qualche insegnante si univa al coro: battutine, allusioni. Se un professore sa che in classe c'è un alunno omosessuale e scherzando con un altro alunno etero gli chiede "non hai la morosa, non sarai mica finocchio?", e tutti ridono, come posso sentirmi io?".
Quando hanno iniziato a insultarti?
"Primo anno, avevo 14 anni. Mi ero accorto di essere gay da due anni. Mi confido con una compagna, la mia migliore amica. Lei lo dice a un altro e si sparge la voce. E la palla di neve inizia a rotolare".
E per quanto rotola?
"Sei anni. Fino a oggi che ne ho venti. Posso dire che là dentro, a scuola, ho passato, anzi sto passando, gli anni peggiori".
Adesso come va?
"Non è che le battute sono finite, è che io reagisco. Dopo l'outing forzato della mia amica, ho subito per cinque anni. In silenzio. Me ne hanno dette e scritte di tutti i colori, un ragazzo una volta, uno che mi piaceva, mi ha detto "se fossi i tuoi genitori ti ripudierei come figlio". È la frase che mi ha ferito di più. Forse si è accanito per togliersi dall'imbarazzo di piacermi".
Come ti sentivi di fronte alle prime offese?
"Provavo odio, anche se è brutto dirlo".
Che cosa succedeva intorno a te?
"Gli omofobi non sono fantasiosi. Sto prendendo una cosa alle macchinette, uno si dà di gomito con un altro, un altro si mette le mani sul sedere, un altro cammina strisciando con la schiena sul muro. Col passare degli anni quell'ignoranza si è riprodotta autoalimentandosi".
Cioè?
"In terza mi bocciano e cambio classe. Penso: gente nuova, non ci si conosce, bòn... Me ne sto tranquillo sei mesi. I miei genitori non sapevano ancora niente. Ma mi vedevano sempre giù, preoccupato, depresso. Conosco una nuova amica, la mia ancora di salvezza. Mi dice: "parla coi tuoi genitori". Non ero pronto".
C'era la scuola, "là dentro", e c'era il fuori, la casa, i genitori, gli amici. Due mondi diversi?
"Sì. A qualche amico avevo iniziato a dirlo. A scuola era sempre la solita musica, la vedevo e la vedo ancora come il posto delle sofferenze, delle umiliazioni. Ma intanto avevo preso un po' più di sicurezza".
Quando l'hai detto ai tuoi genitori?
"Un anno e mezzo fa. Mi vedono sempre giù. Porto a casa una pagella disastrosa, seconda bocciatura. Mi chiedono: "cos'hai? ti droghi?" Mio padre fa: "sei gay? No". Un giorno arriva, prende un bel giro di parole per farmi la stessa domanda. A quel punto racconto. Lui si mette a piangere, ma è contento. "Finalmente dopo 18 anni conosco mio figlio". Prende contatti con l'Arci gay di Udine, mi dice: "Se un giorno ti va di fare due chiacchiere...". È stato un grande. Decidiamo, di comune accordo, che la cosa resta in famiglia".
Torniamo all'istituto tecnico. Insegnanti e preside che dicono quando i compagni ti prendono di mira?
"Niente. Fanno finta che il problema non esista. Mi sbatto per portare anche nella mia scuola il corso (tra i primi in Italia) organizzato dall'ufficio scolastico regionale e dall'Arci gay per sensibilizzare sul bullissimo omofobico. La preside dice: "Il fenomeno qui non esiste". Quando sa benissimo che non è così. C'è un'omertà diffusa".
Perché hai deciso di raccontare la tua storia (il primo a parlarne è stato il Messaggero Veneto), e perché chiedi che non si faccia il tuo vero nome?
"Voglio che chi sta soffrendo quello che ho sofferto io non si senta solo. Il mio nome non lo faccio perché i miei nonni farebbero fatica a accettarlo".
Saresti pronto a raccontare la tua storia anche al provveditore agli studi?
"Sì".
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