POSTATO dal prof d’italiano:
Anche se un po’ difficile, leggete questo articolo pubblicato su la Repubblica il 25 giugno 2012; tratta del negazionismo, ossia della tendenza sempre più diffusa a negare che nei campi di concentramento nazista sia veramente avvenuto l’Olocausto.
L’articolo mi ha fatto venire in mente il padre di una mia alunna di tanti anni fa, che mi attaccò per un anno intero perché avevo scelto come libro di narrativa “Se questo è un uomo” di Primo Levi (un libro che invito chiunque a leggere). Le motivazioni agli attacchi di questo papà (che, non so come, aveva anche una qualche cultura – era un dentista) andavano dal fatto che secondo lui il libro di Levi «non ha alcun valore letterario», alla perentoria affermazione che «i campi di concentramento non sono mai esistiti: tutte balle dei comunisti!» e, infine, alla constatazione che lui non ha mai conosciuto un ebreo (quando invece nella stessa classe di sua figlia c’era appunto una ragazza di religione ebraica). Mi piacerebbe fare nome e cognome di questo papà, tanto è il disgusto che mi provocava, ma è meglio comportarsi civilmente, anche con chi civile non è.
LA MALATTIA NEGAZIONISTA
Di Adriano Prosperi
L'attentato alla scuola ebraica di Tolosa del marzo scorso ha fatto seguito ad altri segni della sopravvivenza e del riaffiorare carsico di una maledizione antica. Come il bacillo della peste che minacciò di estinguere la popolazione europea nel 1348, l 'anno della Peste Nera, quello dell' antisemitismo ha devastato l'Europa e il mondo nella nera notte di Auschwitz. Da allora sopravvive, indebolito ma ancora attivo. Ci si chiede se ci siano e quali siano le misure capaci di impedirlo. Fermo restando che il delitto consumato con la morte di innocenti dovrebbe - avrebbe dovuto - essere punito con tutta la severità delle leggi, resta aperta la questione se non si debba punire anche chi facendo professione di negazionismo vuole cancellare o stravolgere la memoria della Shoah. È un problema che investe la cultura civile, una domanda a cui sono state date risposte diverse. Ne parla una esperta di leggi e di storia, Daniela Bifulco, in una seria e sofferta indagine che ha il merito di scavare con attenzione su quello che accade nei territori confinanti del diritto, della politica e della ricerca storica: Negare l'evidenza. Diritto e storia di fronte alla "menzogna di Auschwitz" (Franco Angeli). La questione ha un'attualità indiscutibile, in un'Europa che sta scoprendo a sue spese quanto poco l'euro sia capace di tenerla insieme. Si è visto ai nostri giorni quali ombre si levino se la gretta attenzione ai conti di casa da parte di un cancelliere tedesco minaccia di cancellare la Grecia dalla costruzione europea. Joschka Fischer ha detto che per questa via la Germania riuscirà a spezzare l'Europa per la terza volta. E allora non sarà forse necessario rendere obbligatori per legge il rispetto dei morti e la memoria stessa colpendo come un reato la negazione della storia? Si eviterebbe così l'offesa estrema ai morti, il delitto con cui gli assassini della memoria (come li ha definiti Pierre Vidal-Naquet) tentano di portare a compimento il disegno nazista. Diversi paesi hanno introdotto norme penali specifiche in materia. Daniela Bifulco, nel proporne un esame ragionato, fa notare che l'Italia non è fra questi. E si chiede perché. Non ha una risposta certa, ma ritiene che non se ne sia discusso come si doveva: una constatazione innegabile. Di fatto, quando la questione è stata sollevata per episodi di negazionismo o indagando sul contesto dov'è maturato il disegno stragista di Gianluca Casseri, il ragioniere neonazista di Pistoia, la tesi che non si possa colpire un'opinione come un delitto ha avuto partita vinta forse fin troppo facilmente. Non che ne mancassero le ragioni: com'è stato fatto notare, una condanna penale oltre a essere difficilmente formulabile offrirebbe a chi ne venisse colpito un'occasione di pubblicità e un'aureola di martire della libertà d'opinione. Ma il nobile argomento della difesa della libertà non basta forse a spiegare le reazioni italiane. Daniela Bifulco fa notare tra l'altro l'urgenza sospetta con cui il defunto governo Berlusconi ha decretato nel 2010 la sospensione dell'efficacia delle sentenze che imponevano alla Germania il risarcimento dei danni per le stragi del 26 giugno 1944 a Civitella della Chiana: l'argomento allora usato fu che si dovevano evitare "tensioni nei rapporti internazionali". Qualcosa del genere era accaduto anche nell'immediato dopoguerra, quando si poteva e si doveva perseguire davvero i colpevoli. Ma stavolta ha pesato forse anche il timore che quella sentenza aprisse la strada a istanze risarcitorie contro l'Italia per la sua non piccola parte di responsabilità analoghe. Si discute su come si possa, in generale, chiudere i conti con il passato: un tema a cui Pier Paolo Portinaro ha dedicato di recente una dotta analisi. Ma non si possono confondere terreni diversi: da una parte ci sono conti che la politica e la giustizia devono saper chiudere: il che significa riconoscere i torti e risarcirli da parte degli Stati e condannare i responsabili se ancora in vita. Dall'altra c'è la ricerca storica come alimento della conoscenza e sostanza di una cultura civile. Oggi da noi il virus dell'antisemitismo non è certo debellato: lo tengono desto le iniezioni di razzismo quotidiano inoculato dal diffuso populismo xenofobo della destra e stimolato dalla realtà di violenza e di sfruttamento di masse di immigrati senza diritti. Ne affiorano spesso i segnali. Sarà dunque il caso di introdurre leggi antinegazionismo? Daniela Bifulco non dice questo. Anzi, mostra come la legislazione penale esistente in altri paesi sia per sua natura entrata in un percorso di distinzioni, estensioni e generalizzazioni, includendo la Shoah in una tipologia più ampia e relativizzandola: un risultato che il revisionismo ha invano inseguito. La cronaca recente della minacciata introduzione in Francia della definizione di genocidio per gli armeni con le connesse sanzioni per chi lo nega ha mostrato la deriva inerziale della tendenza a generalizzare e dunque a ridurre la Shoah a una delle tante pagine nere della storia, passata presente e futura. Forse questo è inevitabile. Anni fa Barbara Spinelli in un bel libro appassionato ( Il sonno della memoria) sottolineò i rischi del chiudere un evento per quanto immensamente mostruoso nella gabbia di una monumentalità sovrumana: la categoria del Male assoluto proietta l'ombra di una sacralità capace di incombere negativamente sulle menti malate. Ma, se la comparazione storica è da accogliere e praticare come strumento di conoscenza, bisogna invece opporsi alla relativizzazione come riduzione banalizzante della dimensione autentica dei fenomeni storici. La realtà di Auschwitz è una di quelle vette o di quegli abissi da cui si deve prendere la misura per guardare all'intero paesaggio. La ricerca storica sta ancora esplorando il dipanarsi dei percorsi che portano fino lì e che da lì si dipartono. Non con le pene della legge ma con l'investimento nella conoscenza e nella tutela delle memorie si può fare fronte al negazionismo. Esso ha come alleati l' ignoranza e la perdita di memoria e cresce nelle zone buie dell' intolleranza e del razzismo diffuso là dove i diritti umani sono disprezzati e offesi. L'Italia non ha certo le carte in regola a questo proposito. Nemmeno sul terreno del rapporto col suo recente passato. Il libro di Daniela Bifulco ha il merito di affrontare un tema non per caso piuttosto desueto in un paese - il nostro - incline a un distratto e superficiale perdono, abile nell'evitare domande inquietanti. Dopo la seconda guerra mondiale si è preferito immaginare gli italiani come vittime piuttosto che come carnefici: e l'intero paese ha preferito vedersi in veste di vincitore piuttosto che di vinto. Da noi il ricordo della legislazione razziale antisemita è appena baluginante. Mesi fa in una città universitaria italiana è stata posta una lapide in memoria di studenti e docenti allontanati nel 1938 perché ebrei: un rito distratto e tardivo, disertato dalla generalità del corpo accademico, rettore in testa. Lo stesso silenzio del 1938, quando gli illustri membri ecclesiastici e laici delle mille accademie italiane furono assai solerti nell'attestare l'assenza di macchie nella loro tradizione familiare tutta ariana e cattolica. Qualche monsignore poté svicolare dall'obbligo di rispondere grazie alla cittadinanza vaticana, come ha scoperto di recente Annalisa Capristo. Ma tutti gli altri si gloriarono dell' indefettibile loro arianità e di un cattolicesimo come immemoriale patrimonio di famiglia. L'unico a rispondere con lo sdegno che ci voleva fu Benedetto Croce. Troppo poco, davvero.
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