POSTATO dal prof d’italiano:
A proposito della poesia comico-realistica, vi faccio leggere 2 altre poesie, oltre alla famosa “S’i fosse foco” che c’è nell’antologia.
La prima è dello stesso Cecco Angiolieri ed è un sonetto:
Tre cose solamente mi so’ in grado,
le quali posso non ben ben fornire,
cioè la donna, la taverna e ‘l dado:
queste mi fanno ‘l cuor lieto sentire.
Ma sí-mme le convene usar di rado,
ché la mie borsa mi mett’al mentire;
e quando mi sovien, tutto mi sbrado,
ch’i’ perdo per moneta ‘l mie disire.
E dico: «Dato li sia d’una lancia!»,
ciò a mi’ padre, che-mmi tien sì magro,
che tornare’ senza logro di Francia.
Ché fora a tôrli un dinaro più agro,
la man di Pasqua che-ssi dà la mancia,
che far pigliar la gru ad un bozzagro.
PARAFRASI:
Tre cose solamente mi sono gradite, le quali non posso procurarmi nella quantità desiderata, cioè le donne, l’osteria e il gioco: queste mi fanno sentire il cuore lieto.
Ma sono costretto a godermele raramente, perché la mia borsa [il mio portafoglio] mi smentisce [cioè non mi permette di averle]; e quando me ne ricordo, vado su tutte le furie, perché per mancanza di denaro perdo ciò che desidero.
E dico: «Venga trafitto da una lancia!», ciò lo dico a mio padre, che mi tiene così magro [cioè non mi dà soldi], che tornerei senza dimagramento anche dalla Francia [cioè per fame tornerei anche da lontano, pur di avere ciò che voglio].
Perché sarebbe più difficile togliere un soldo [a mio padre], anche se fosse la mattina di Pasqua quando si dà la mancia, che far catturare una gru a una poiana [è impossibile che una poiana possa catturare una gru, visto che quest’ultima è più grossa e veloce della prima].
La seconda è di Rustico Filippi ed è sempre un sonetto: è una poesia piuttosto “violenta”, che rientra in una tradizione goliardica, risalente sia alla età classica che a quella medievale, improntata a una esasperata misoginia [probabilmente il termine “misoginia” è ignoto ai miei alunni; cercatene il significato nel dizionario]
Dovunque vai conteco porti il cesso,
oi buggeressa vecchia puzzolente,
che quale-unque persona ti sta presso
si tura il naso e fugge immantinente.
Li dent’i-le gengíe tue ménar gresso,
ché li taseva l’alito putente;
le selle paion legna d’alcipresso
inver’ lo tuo fragor, tant’è repente.
Ch’e’ par che s’apran mille monimenta
quand’apri il ceffo: perché non ti spolpe
o ti rinchiude, sì ch’om non ti senta?
Però che tutto ‘l mondo ti paventa:
in corpo credo figlinti le volpe,
ta-lezzo n’esce fuor, sozza giomenta.
PARAFRASI:
Dovunque vai porti con te il cesso, o sudiciona vecchia puzzolente, che qualunque persona ti sta vicino si tura il naso e fugge immediatamente.
I denti producono tartaro nelle tue gengive, perché li intasa l’alito puzzolente; i sedili per i bisogni corporali sembrano fatti di legno di cipresso [che è profumato] in confronto alla tua puzza, tanto è violenta.
Che sembra che si aprano mille sepolcri quando apri il muso [la bocca]: perché non crepi o non ti rinchiudi, cosicché nessuno ti senta?
Infatti tutto il mondo ti teme: credo che le volpi ti partoriscano in corpo [e dunque puzzi come una tana di volpi], tale è la puzza che esce da te, sporca vacca.
Per concludere questo approfondimento sulla poesia del ‘200, che stiamo studiando in classe, ascoltatevi – se già non la conoscete – la canzone di Fabrizio De Andrè che ha il testo di Cecco Angiolieri, andando su questo link: