giovedì 20 settembre 2012

Visita a Vicenza

POSTATO dal prof d’italiano:

Poiché andremo a vedere la mostra di cui si parla in questo articolo (pubblicato da la Repubblica il 19 settembre 2012), vi conviene leggerlo.
Vicenza
Ottobre, il fascino discreto del Palladio


Di Roberto Caramelli
Ai primi posti delle classifiche in Rete, dedicate agli architetti che hanno cambiato la storia dell' arte, compare sempre il nome di Andrea Palladio. Le sue opere e le teorie espresse nel trattato I quattro Libri dell'architettura, pubblicato nel 1570, hanno fatto scrivere al critico Nicolai Ouroussof (in occasione della proclamazione di Palladio come "Padre dell'architettura americana" da parte del Congresso Usa nel 2010) che «il suo linguaggio ha reso l'antichità moderna, e si adatta perfettamente al Vecchio e al Nuovo Mondo, a monarchi e a rivoluzionari». Il "palladianesimo" ha influenzato non solo il Neoclassicismo e l'architettura delle ville nobiliari inglesi del Settecento, ma anche il Classicismo socialista di Stalin. E, naturalmente, l'architettura americana: palladiana è la facciata della Casa Bianca. Palladio, prima di influenzare l'architettura di mezzo mondo, però, trasformò radicalmente il volto di Vicenza dove si formò professionalmente dopo aver fatto lo scalpellino a Padova. Città dove visse e divenne celebre. Con mostre e appuntamenti a Vicenza, ottobre sarà idealmente il mese di Palladio. Evento clou, la riapertura della Basilica Palladiana, struttura simbolica che si affaccia su Piazza dei Signori, Piazza Biade, Piazza Palladio e Piazza delle Erbe. L'edificio pubblico, utilizzato a lungo per mostre e incontri e Patrimonio Unesco dal 1994, ha acquisito l'aspetto che tutti conosciamo grazie al loggiato "serliano" (arco a tutto sesto e aperture laterali) e alla copertura, progettati da Andrea Palladio nel 1549. Chiuso dal 2007 per lunghi e complessi lavori di restauro, costati 15 milioni di euro, che hanno interessato la copertura, le facciate, la messa in sicurezza degli impianti e l'illuminazione, l'ex Palazzo della Ragione sarà restituito alla città il prossimo 5 ottobre con due eventi: l'inaugurazione della grande mostra Raffaello verso Picasso. Storie di sguardi, volti e figure, e il concerto in Piazza dei Signori alle 21,30 del cantautore Raphael Gualazzi. La mostra, curata da Marco Goldin e organizzata da «Linea d'ombra», raccoglie all'interno della Basilica Palladiana un centinaio di capolavori provenienti da tutto il mondo: è un viaggio attraverso la storia del ritratto e della figura umana , dall' armonia del Rinascimento alla scomposizione della forma del Novecento. Le sezioni sono quattro e seguono un filo tematico non cronologico; nella prima, con opere di Mantegna, Botticelli, Veronese, El Greco, Delacroix, Manet, viene analizzato il sentimento religioso nella pittura, con Crocifissioni, Natività, Madonne con il Bambino, Annunciazioni. I ritratti di nobili e potenti sono il tema della seconda sezione: dall'Olanda all'Italia, dall'Inghilterra agli Stati Uniti, sfileranno opere di Tiziano, Rubens, Velázquez, Hals, Van Dyck, Copley, Sargent. Non poteva mancare l'attenzione "al quotidiano" e l' introspezione psicologica già presenti nel Rinascimento: è il tema della terza sezione, con opere di Raffaello, Pontormo, Giorgione, Durer, Courbet, Millet. La mostra si chiude con la sezione dedicata al ribaltamento degli schemi tradizionali nella rappresentazione della figura umana, dove Van Gogh, Gauguin, Cézanne, Picasso, Freud, Modigliani, Munch, esprimono sulla tela il rapporto inquieto degli artisti con la materia e con lo spazio. L'omaggio a Palladio non finisce qui: il 4 ottobre, nel cuore del centro storico, verrà inaugurato il PalladioMuseum di Palazzo Barbarano, residenza nobiliare realizzata da Palladio tra il 1570 e il 1575, ora sede del Centro Studi Internazionale di Architettura palladiana. Verrà proposto un percorso interattivo attraverso la vita e le opere del grande architetto rinascimentale, con disegni originali, modellini in legno, quadri dell' epoca. Il museo racconterà anche la vita di Vicenza ai tempi di Palladio. Ancora un edificio palladiano, ancora una mostra, ancora l'apertura di spazi rimasti fino ad oggi inaccessibili al pubblico: Palazzo Chiericati, sede dei Musei Civici di Vicenza, inaugura il 6 ottobre l'esposizione Cinque secoli di volti. Una società e la sua immagine nei capolavori di Palazzo Chiericati che rimarrà aperta fino al 20 gennaio 2013. Durante i giorni della mostra, il palazzo, dove l'architetto rinascimentale usò per la prima volta la tipologia di una villa di campagna per una costruzione urbana, apre alcune sale appena restaurate mai viste prima. Il percorso propone tele e sculture che ritraggono personaggi della società vicentina, dal Cinquecento al Novecento; tra gli autori: Canova, Dorigny, Busato, Beltrame. Tra gli altri appuntamenti dell'autunno vicentino, vanno ricordate: Ethiopia Porta Fidei dedicata all'arte cristiana etiope, al Museo Diocesano dal 27 ottobre 2012 al 24 febbraio 2013; L' Italia e gli Italiani nell' obiettivo dei fotografi Magnum, dal 20 settembre 2012 al 20 gennaio 2013 a Palazzo Leoni Montanari.

Un ritrovamento della Shoah

POSTATO dal prof d’italiano:

Articolo pubblicato da la Repubblica il 17 settembre 2012.
Ritrovato il tappeto di Lodz
simbolo dell' antinazismo


Di Andrea Tarquini
Opera di artisti e artigiani, fu un atto di resistenza. Sopravvisse all'Olocausto, e per settant'anni rimase quasi dimenticato in un semplice appartamento. Adesso è riemerso dal passato, con tutto il suo carico di memoria, e lo Shem Olam Institute israeliano, fondato dal rabbino Avraham Krieger per studiare la cultura ebraica nell'Europa occupata dal Terzo Reich, lo ha esposto in pubblico. È il tappeto del ghetto di Lodz, fu tessuto in segreto dagli ebrei della città - sfruttati come bestie dai nazisti - per celebrare il Rosh Hashanah, il capodanno ebraico. Di quei tessitori coraggiosi non sappiamo nulla: né il nome, né quanti fossero, né se riuscirono a sopravvivere come sì e no diecimila dei 204mila abitanti del ghetto. Di loro resta quell'opera. Il grande tappeto, con un grande ragno nero su una ragnatela, simbolo del nazismo e delle armate hitleriane che occupano l'Europa e avviano l'Olocausto, e una stella gialla a sei punte, come quella che i tedeschi costrinsero ogni ebreo dei paesi invasi a portare sulla giacca o sul cappotto. Marchio per essere identificati, ma anche, per i tessitori ignoti, immagine della speranza. E sul tappeto è tessuta una data, riferita agli auguri per l' anno nuovo: anno 5702 del calendario ebraico. Corrisponde a un periodo a cavallo tra il 1941 e il 1942, quando appunto a Lodz i tedeschi accelerarono il ritmo industriale del genocidio. «Per anni e anni questo tappeto rimase appeso a un muro dell'appartamento di mia madre», ha raccontato la donna polacca che lo ha scoperto. «Mamma si trasferì a Lodz da un villaggio vicino, dopo la guerra. Trovò alloggio in una zona abbandonata, aveva fatto parte del ghetto. Oggi mia madre è anziana, ho voluto evitare che quel tappeto andasse perduto, per cui ho voluto consegnarlo a chi tiene vivo il ricordo». Ancora oggi, Lodz è nota come la Manchester polacca, perché col fiorire dell'industria tessile, divenne uno dei poli della rivoluzione industriale nella Mitteleuropa. E insieme, fu uno dei centri più vivaci dell'ebraismo europeo: erano ebrei circa un terzo dei suoi 672mila abitanti, quando il 30 settembre 1939, dopo un mese di disperata resistenza su due fronti delle forze armate polacche, la Wehrmacht nazista e l'Armata rossa completarono l'occupazione e la spartizione della Polonia. Già nel dicembre 1939,i nazisti ordinarono di concentrare tutti gli ebrei in un ghetto, tra parte della città vecchia e l'adiacente quartiere di Baluty. Il resto della città avrebbe dovuto essere "Judenfrei", «libero dalla presenza di ebrei». Palizzate e muri, con pochi varchi presidiati da militari e poliziotti tedeschi, chiusero il ghetto. Le 47 scuole ebraiche furono chiuse d'autorità. Ogni contatto o commercio con gli "ariani", inclusi i tedeschi portati da Ovest a "germanizzare" le terre di conquista fu vietato. Nella Polonia occupata (unico paese invaso da Hitler dove non nacque mai un'autorità collaborazionista) il ghetto di Lodz fu il secondo per popolazione dopo quello di Varsavia. Agli abitanti fu imposto il pesante lavoro da schiavi (tessili, uniformi, altri accessori) per la Wehrmacht, in 117 fabbriche o officine. I contatti con l'Armia Krajowa, l'esercito partigiano guidato dal governo in esilio a Londra, e i resistenti ebraici, per fuggire e combattere, furono resi quasi impossibili dai nazisti. I tedeschi ammassarono nel ghetto di Lodz ebrei deportati da altrove in Europa, e rom destinati anch'essi al genocidio. Scuole e stamperie erano clandestine, come lo furono teatro, concerti, fotoreportage sulla fame, e la tessitura del tappeto. O la compilazione dell'album delle firme dei bimbi del ghetto, messo insieme per ricordare di essere esistiti e poi nascosto. Proprio nel 1942, nell'anno nuovo salutato dal tappeto, cominciarono deportazioni di massa verso i campi di sterminio nazisti di Chelmno e poi Auschwitz. Ventimila bambini furono portati via a settembre, l' ospedale pediatrico fu svuotato a forza. Ci furono suicidi collettivi di famiglie intere per sfuggire ai treni della morte. Albert Speer, ministro degli armamenti, voleva tenere in vita gli operai-schiavi del ghetto per rifornire la Wehrmacht. Ma nel 1944, con la ritirata davanti ai russi, Himmler lo convinse a farne a meno. Vennero massacri e deportazioni finali. Restano solo quel tappeto ritrovato, e l' album delle firme dei bambini al museo dell'Olocausto di Washington, a ricordare quei quasi duecentomila sterminati e la loro voglia di sopravvivere.

Un'immagine del ghetto di Lodz



 

Quali lingue studiare per il futuro?

POSTATO dal prof d’italiano:

Pubblicato da la Repubblica il 17 settembre 2012.

La rivincita di Goethe su Shakespeare
"Col tedesco è più facile trovare lavoro"

Di Caterina Pasolini
Una volta erano soprattutto aspiranti filosofi, letterati, studiosi di teologia. Ora c'è Andrea, che fa l'ingegnere e presto partirà per Monaco, Stefano, medico in un grande ospedale milanese che andrà a Zurigo, e Simone, avvocato tributarista romano, che dalla capitale invece per ora non si muove. Hanno storie, lavori, città diverse alle spalle. Ad unirli la decisione, a più di 30 anni, di mettersi a studiare il tedesco.
Lo studiano, con l'urgenza, l'impegno, la stanchezza di chi ha ore di ufficio e corsia sulle spalle, per reinventarsi una vita e trovare nuovi impieghi, per garantirsi un presente economico più solido, moltiplicare i clienti, ridisegnarsi un futuro in anni di crisi nera.
Nell'ultimo anno nel nostro paese gli allievi di tedesco sono cresciuti del 18 per cento, a seguire una tendenza che percorre l'Europa e si intensifica man mano che si rafforza l'economia di Berlino: se infatti in Portogallo l'aumento degli alunni è di ben il 62 per cento, in Spagna siamo al 38 per cento in due anni e in Grecia al 30 per cento in soli sei mesi.
Ormai non è più questione di letteratura o teologia, è l'economia a dettare le scelte e così se quando cadde il Muro di Berlino e si aprirono i mercati dell'est si moltiplicarono gli appassionati di russo, ora è la volta del mandarino per conquistare la Cina e della lingua di Thomas Mann per aprirsi ai mercati tedeschi, svizzeri o del Lussemburgo, mentre il portoghese nella sua pronuncia più dolce e ricca di saudade ha ritrovato fulgore da quando il Brasile è diventano una vera locomotiva.
"È vero, il boom del tedesco coincide con la crisi, ma non dimentichiamoci che siamo il vostro primo partner commerciale e che in Germania c'è grande richiesta di medici, ingegneri, tanto che noi organizziamo corsi specifici per le diverse professioni, dai giuristi agli insegnanti, ai dottori", racconta Thilo Will del Goethe Institut, l'istituto di cultura nazionale che organizza lezioni per 5 mila studenti in 4 sedi. Tra loro storie diverse. C'è chi comincia a guardare a nord già dall'università come Federica Fraschetti, vent'anni, che a Roma studia biomedicina e nel tempo libero sogna anche in tedesco perché "visti i chiari di luna in Italia e le possibilità di lavoro nel mio settore in Germania, mi tengo una porta aperta e spero in uno stage magari a Berlino". C'è anche chi si muove a 40 anni come Alessandro Nervetti che, assunto nel '99 in una banca tedesca, con inglese e francese già fluenti, ora si è messo ad imparare la lingua dei suoi datori di lavoro "perché negli ultimi tempi sempre più le pratiche si fanno nella lingua madre aziendale, e poi avrò più prospettive". Pasqualino, manager cinquantenne del settore automobilistico, cerca invece "una nuova occasione in paesi dove ti valutano per i risultati che porti, non come qui dove ti considerano per i minuti che passi seduto davanti alla scrivania". Mentre Fabio Tonelli, dopo le lezioni di lingua, il sogno l'ha già realizzato: andare a lavorare alla Bmw.
Il tedesco viene visto ormai come àncora per un posto di lavoro. La Germania è infatti il primo partner commerciale per l'Italia con il 15,9 per cento delle importazioni e il 13 per cento delle esportazioni, ma soprattutto qui ci sono 2.300 imprese a capitale tedesco (come Bosch, Mercedes, Lufthansa, Porsche) che danno lavoro a 170 mila italiani e hanno rapporti con decine di aziende nostrane. Soprattutto al nord e così tra Torino e Milano si moltiplicano i corsi aziendali, anche per duecento dipendenti, in maggioranza nel settore automobilistico. E visto il giro commerciale c'è anche chi come Simone Covino, tributarista, non pensa di trasferirsi, ma si è messo a studiare il tedesco perché "sono sempre di più gli imprenditori che vogliono aprire all'estero, soprattutto in Svizzera". E come lui sono tanti quelli che restano, che magari non vogliono partire ma imparano la lingua di Berlino pensando di lavorare nel commercio, nel turismo visto che su dieci che scelgono il nostro paese per le vacanze quattro arrivano da Germania, Austria, Svizzera. Pronti a dire "Ich liebe dich".






martedì 11 settembre 2012

B.A.S.

POSTATO dal prof d’italiano:

Pensionamento per una pistola

POSTATO dal prof d’italiano:

Domenica 9 settembre 2012 la Repubblica ha pubblicato questo bell’articolo di storia minore, che piace tanto a me. Leggetelo, anche se parla di una brutta cosa come un’arma.

Makarov La pistola che venne dal freddo
Di Nicola Lombardozzi

Quando in un racconto compare una pistola, questa prima o poi dovrà sparare. Anton Cechov, che non amava i fronzoli inutili in letteratura, usava questa immagine per invitare a una narrazione asciutta, senza particolari ininfluenti. E la userebbe certamente in questi giorni per mettere in guardia i cantori di un mito sinistro che celebrano l'addio delle forze armate russe alla Makarova o pistola Makarov, «simbolo di un'epoca», raccontata con una vena nostalgica degna di oggetti meno letali. Intellettuali e cronisti, alcuni perfino di animo pacifista, si perdono nei loro ricordi evocando esperienze personali, i film e i libri dell'infanzia, raccontando della Makarova come fosse l' automobile del nonno o la crostata casalinga negli stenti del dopoguerra. E fanno da nobile sottofondo a un coro di esperti e appassionati che si esaltano in particolari meno sentimentali come «blindatura delle munizioni», «capacità di penetrazione». Quelle caratteristiche che sono fondamentali in una pistola per farne quello che è: uno strumento per uccidere. Nessuno ha calcolato le vittime della Makarova in sessantun'anni di onorato servizio. A stento, qualcuno ha ricordato la più celebre. Anna Politkovskaja, la giornalista più odiata dal Cremlino, uccisa con quattro colpi di pistola Makarov sparati da un misterioso, e ben addestrato, assassino che l' aspettava nell'androne di casa una mattina d'ottobre del 2006. Fu proprio la scelta dell'arma a dare subito una connotazione politica a quell'omicidio ancora irrisolto. Pistola d'ordinanza dell' esercito e poi della polizia, in dotazione ad alcuni rami dei servizi segreti, la Makarova è sempre stata l'arma dei "cattivi" nella letteratura e nella cinematografia occidentale specializzata in intrighi e storie di spie da Frederick Forsyth a Martin Cruz Smith. La usavano, male, gli agenti che cercavano di uccidere James Bond; la impugnavano, torvi, gli ufficiali incaricati di giustiziare i condannati con il fatidico colpo alla nuca. Né vale a ingentilirne il ricordo, scoprire che il tenero e immortale Jurij Gagarin ne portasse una con sé, nascosta dentro a uno stivale, a bordo della sua traballante Vostok Uno, il 12 aprile 1961 quando diventò il primo uomo della storia a lanciarsi nello spazio. Non serviva per difendersi da improbabili incontri con extraterrestri. Probabilmente avrebbe potuto trarlo d'impaccio in caso di atterraggio in paesi ostili o tra popolazioni particolarmente aggressive. In ogni caso, lo raccontò lui stesso, la Makarova con il colpo in canna gli diede un senso di sicurezza maggiore degli instabili e pionieristici strumenti di bordo. Che poi, a ben guardare, la Makarova non era nemmeno questo gran prodigio della tecnologia bellica. Semmai, una perfetta riproduzione della filosofia sovietica di ogni prodotto industriale dagli ascensori alle affettatrici: rudimentali, facili da riparare, di durata illimitata. Questo contava molto più delle finezze occidentali e di quelle soluzioni sofisticate che rendevano l'oggetto bello ma inaffidabile. L'ingegnere dell'Armata Rossa Nikolaj Makarov, che nel 1951 vinse il concorso per la nuova pistola militare d'ordinanza, applicò questo principio nel rielaborare un progetto simile a quello della pistola Walther PP dell'esercito tedesco. Ne fece un giocattolino a basso costo, di facile produzione e che aveva il pregio di non incepparsi mai nemmeno se fosse stata immersa nel fango o custodita senza l'adeguata manutenzione. Trattata male, lubrificata di rado, tenuta da mani inesperte, la pistola Makarov spara sempre. Un po' come l' ancora più celebre fratello maggiore. Quel fucile mitragliatore Kalashnikov AK 47 celebrato con l' agghiacciante slogan: «Può usarlo anche un bambino». Come testimoniano le tristi vicende dei bambini soldato mandati a morire nelle guerre civili africane. Dotata di un calibro 9,3, più grande del 9 parabellum della Nato (particolare che politicamente dava una bella soddisfazione), la Makarova era famosa soprattutto per il cosiddetto "potere d' arresto", cioè per quel "calcio di mulo" che infliggeva con conseguenti rotture di costole, perfino a chi si fosse dotato di un giubbotto antiproiettile. Ottima dunque per le operazioni di polizia. Molto meno per i lavori di precisione. Proprio all'inizio degli anni Cinquanta un dibattito tecnico-filosofico animò le rigide cronache sovietiche a proposito del battesimo del fuoco della nuova pistola. Accadde che un giovane tenente, campione di tiro, si ritrovasse a tornare nel suo appartamento moscovita qualche ora prima del previsto. Circostanza sfortunata perché gli permise di trovare nudi in camera da letto la moglie e l' amante. La soluzione possibile sembrava una sola: quattro colpi della pistola nuova di zecca, appena ricevuta in fureria. Li ferì entrambi, lievemente. Il dibattito non riguardò ovviamente il tentato omicidio d'onore. Ma un particolare ritenuto assai più sconcertante: come era possibile che un tiratore, giovane e sobrio, non fosse riuscito a uccidere i suoi bersagli a una distanza tanto ravvicinata? Con la scusa di commentare un episodio di cronaca nera, molti lettori e qualche esperto misero in imbarazzo il governo con le loro critiche velate a un'arma che appariva grossolana e imprecisa. Per chiudere il caso al più presto, il tenente fu assolto e tornò ad addestrarsi per «adeguarsi alle esigenze della nuova arma moderna». L'errore di mira del tenente rivelava una certa approssimazione del progetto ma la pistola di Makarov, prodotta in milioni di esemplari, era ormai destinata a essere l'arma più diffusa nel Patto di Varsavia con varie riproduzioni e perfezionamenti in Bulgaria e Ddr. Tanto da donare un indiscusso alone di familiarità a un oggetto di morte. Molti bambini sovietici hanno provato a intagliarla nel legno per farne un giocattolo, fingere di sparare o semplicemente legarsela alla cintola per darsi un contegno nei raduni dei pionieri comunisti. A consacrare il suo ruolo di dispensatrice di sicurezza ci ha pensato nel 1993 il film Makarov del cerebrale regista Vladimir Khotinenko. La storia di un intellettuale, timido e fragile stravolto dalla violenza e dagli squilibri economici dell'era Eltsin, successiva alla fine dell'Unione Sovietica. Alla fine, una bella Makarova in tasca gli restituirà le antiche certezze e gli consentirà di affrontare più serenamente quei tempi bui. Esagerazioni che alimentano la nostalgia per il mito perduto, adesso che il ministero della Difesa ha deciso di dotarsi di una nuova arma. La pistola che soppianterà la Makarova viene descritta ovunque con tutte le sue doti di penetrazione, maneggevolezza, velocità di ricarica. È un progetto russo che parte dall'idea di un tecnico italiano. Si chiama Strizh che è un nome poetico perché vuol dire rondone. Giornali e riviste ne esaltano il design moderno e la leggerezza. Dimenticando che, come tutte le pistole del mondo, prima o poi spara.