domenica 6 maggio 2012

Recensioni a "Hunger Games"

POSTATO dal prof d’italiano:

Per chi vuole andare a vederlo, o per chi l’ha già visto, ecco alcune recensioni del film del momento:


Dal Corriere della Sera:
Gare mortali tra ragazzi: videogioco senz’anima. Incassi record. Ma non è grande cinema
Di Paolo Mereghetti
Travolti da una montagna di incassi (359 milioni di dollari negli Usa fino al weekend scorso, 272 milioni in euro. E non è finita), sommersi da «spiegazioni» e «informazioni» di ogni tipo (la prossima settimana Castelvecchi pubblicherà ben due guide ufficiale all'evento: al film e ai «tributi», cioè ai protagonisti), si rischia l'overdose. Così come indicare una possibile ascendenza cinefila (La pericolosa partita, 1932, di Schoedsack e Pichel) può innescare una libertà interpretativa che il film di Gary Ross non merita e non giustifica. Diciamolo subito: i riferimenti alla storia di Roma antica sono da fumetti, in linea coi centurioni a pagamento con cui i turisti si fanno fotografare davanti al Colosseo; i rimandi alle divisione tra «poveri» e «ricchi» (che di scontro di classe non si può proprio parlare) sono talmente schematici da sfidare il ridicolo; e le allusioni alla dittatura dei media sono così superficiali e folcloristiche da giustificare l'idea che siano state messe lì per «imbrogliare» un po' le carte, furbesco tributo allo spirito dei tempi.
Questo non vuol dire che il film non funzioni come giocattolone adolescenziale, ma il suo posto è più tra i videogame e i gioco di ruolo che tra i titoli che segnano la storia del cinema. E anche pensando solo a quella degli incassi (dove è già entrato di diritto tra i primi cinquanta film di tutti i tempi) coltivo la tenue speranza che il successo in terra americana non venga bissato - almeno in proporzioni simili - anche da noi. E non per disprezzo verso il «pubblico» ma per «amore» verso il cinema e per fiducia in un maggior livello di «maturità» degli adolescenti italiani. Come una martellante campagna autopromozionale si è già preoccupata di farci sapere, il film è tratto dal primo dei tre romanzi di Suzanne Collins (pubblicati in Italia da Mondadori) e ambientato in un futuro post-moderno e post-apocalittico, nello stato di Panem (gli antichi Stati Uniti): come punizione per un'antica ribellione al potere centrale, da 74 anni si svolgono gli «hunger games», a cui i dodici Territori nazionali mandano ognuno un ragazzo e una ragazza tra i 12 e il 18 anni per un combattimento all'ultimo sangue.
A filmare chi sarà l'ultimo sopravvissuto ci pensa una specie di grande fratello televisivo, i cui programmi vengono seguiti con comprensibile apprensione dai Territori e con divertito cinismo dai ricchi privilegiati che abitano la capitale del Paese.
Nella prima ora dei 142 minuti di film, veniamo messi a conoscenza della rigida divisione sociale che vige a Panem, più variegata nel romanzo e più drammatica nel film, che ci mostra solo i poverissimi minatori del dodicesimo Territorio, quello da cui provengono i due «tributi» Katniss, (Jennifer Lawrence) che si è offerta volontaria al posto della sorellina minore sorteggiata, e Peeta (Josh Hutcherson). Scopriamo chi muove le fila del combattimento (Wes Bentley) e chi quelle del potere politico (Donald Sutherland), quali sono le regole del combattimento e quelle dello spettacolo (guidato da un inquietante Stanley Tucci). E soprattutto ci sforziamo di orientarci tra i vari indizi che la sceneggiatura (del regista, dell'autrice dei romanzi e di Billy Ray) lascia ogni tanto cadere: l'importanza del look (c'è Lenny Kravitz a occuparsi di quello di Katniss e Peeta), del bisogno di ingraziarsi gli spettatori abbienti (chiamati apertamente sponsor dal «consigliere» Woody Harrelson), di far colpo sul romanticismo di chi guarda e soprattutto sul ruolo di «circenses» cui tutti i «tributi» sono costretti dalle regole di Panem.
Peccato che tutto o quasi venga abbandonato nella seconda parte del film, dove seguiamo soprattutto la lotta dei due rappresentati del dodicesimo territorio per sopravvivere: senza una vera spiegazione diventano loro i «buoni» per cui tifare mentre uno dopo l'altro vengono abbandonati o dimenticati gli elementi «sociologici» scoperti nella prima parte. Resta, com'era prevedibile, un sottofondo di rozzo darwinismo sociale (la lotta per la sopravvivenza) appena un po' riscattato dal solito «omnia vincit amor». Con buona pace di chi si era immaginato letture più complesse e profonde, non dico come Il signore delle mosche (di Golding e Brook) ma nemmeno come Battle Royal (di Fukasaku), mentre La pericolosa partita con i suoi inquietanti incubi fantastici sembra lontanissima. Anche per via di una certa ipocrisia visiva, che cancella le immagini più cruente dei duelli all'arma bianca, proprio quelli che potrebbero offendere non certo lo spettatore ma piuttosto il rigidissimo censore americano.


Da la Repubblica:
La fiera dei miti greci tra sottocultura televisiva e pacchetti di pop corn
Di Curzio Maltese
Al confronto di Hunger games, il fenomeno che in America ha polverizzato tutti i record d'incasso, la saga di Harry Potter sembra scritta da Shakespeare.È difficile trovare perfino fra i blockbuster una sceneggiatura così banale, con un finale prevedibile fin dal primo minuto, una scrittura dei personaggi altrettanto univoca, con i buoni garantiti al limone e i cattivi ridotti a una maschera di crudeltà.
Non bastasse, mentre l'inglese Rowling s'inventa un mondo letterario intorno al suo maghetto, la Collins, autrice del bestseller americano, si limita a copiare e assemblare un'infinita serie di miti classici, a cuocerli nel grasso della sottocultura televisiva e a distribuirli come tanti pacchetti di pop corn all'ingresso delle sale.
La storia in breve è quella di un'America del futuro, caduta in una dittatura grottesca e feroce, dove ogni anno i dodici distretti che la compongono sono chiamati a offrire il tributo di ventiquattro giovani (un maschio e una femmina ciascuno) da mandare al macello in una specie di edizione sanguinosa dell' Isola dei Famosi. Alla fine soltanto uno sopravvivrà alla prova. La protagonista Katniss Everdeen, la bellissima Jennifer Lawrence, si offre volontaria al posto della sorellina come rappresentante femminile del dodicesimo distretto, il più povero, quello degli schiavi minatori. Accanto all'eroina con arco e frecce, novella Diana, si presenta l'innamoratissimo Peeta Mellark, il bravo Josh Hutcerson, che le farà da scudiero. Date le premesse, come andrà a finire? L'oggettiva miseria artistica di Hunger games, non emendata dal talento del regista Gary Ross ( Pleasantville, Seabiscuit) e neppure dal genio di due attori formidabili come Donald Sutherland e Stanley Tucci, nei ruoli del vecchio dittatore e del cinico presentatore televisivo, rende naturalmente ancora più avvincente il mistero dello straordinario successo. All'impero americano piace rappresentarsi certo con le metafore dell'antichità, che qui sono sparse a piene mani, dal mito del Minotauro alla lotta dei gladiatori, agli stessi nomi del regno, Panem («i circenses sono scontati», ha scritto Vittorio Zucconi), e della città, Capitol.
Da sociologi da strada, si può citare anche la paura per la fine della democrazia e l'angoscia per il futuro delle giovani generazioni, vampirizzate da una società egoista e gerontocratica. Due elementi che non mancano in nessuna delle saghe popolari di questi ultimi vent'anni. Ma la vera ragione del successo del film è probabilmente la più deprimente: il gelido calcolo commerciale dell'operazione, il grado zero di scrittura e invenzione, la totale aderenza agli stilemi televisivi. Hunger games è uguale alla televisione, ma portata all'estremo dagli effetti speciali del grande schermo. Per dirla con le immortali parole di Macbeth, Hunger games è come la vita di tutti i giorni, una favola è raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla.


Da la Stampa:
“Hunger Games” Combatti e sopravvivi
Di Alessandra Levantesi Kezich

Negli Usa la trilogia Hunger Games di Suzanne Collins (Mondadori) è un bestseller che vanta illustri estimatori quali Stephen King; anche se alcuni opinionisti, in considerazione della destinazione «young adult» della saga, ne hanno giudicato eccessivo il livello di violenza.
Gli Hunger Games sono infatti una spietata partita di morte fra adolescenti di entrambi i sessi, costretti a uccidersi l’un l’altro fino a che non rimane in vita un solo vincitore. Tutto ciò si svolge a Panem – ovvero un’America futura - dove il 99 per cento dell’umanità, causa la progressiva penuria di cibo, vive sfruttata e reclusa in 12 distretti; mentre una piccola minoranza, insediata nella lussuosa Capitol City, conduce un’esistenza frivola e vana. Creati dopo una sommossa, gli Hunger Games sono un tributo annuale, come un tempo i sacrifici umani agli dei (la Collins cita il mito del Minotauro fra le sue fonti ispiratrici); e, trasmessi in diretta video, rappresentano un truculento reality a diletto dei ricchi. Estratti a sorte, due per ogni distretto, i giovanissimi contendenti beneficano di un assaggio consolatorio degli agi di Capitol City; e di un’intervista tv utile a ingraziarsi gli sponsor, abilitati a truccare le carte del gioco al massacro sulla base degli indici di gradimento. Ma la sedicenne Katniss, infallibile con l’arco, non è disposta a farsi manovrare e si apre una personale strada alla vittoria, stravolgendo le regole con disappunto del Potere.
Sceneggiato dalla scrittrice stessa, il film di Gary Ross edulcora alcuni aspetti del racconto, ma la prefigurazione di una società ventura anti-utopica, dove i valori sono capovolti e (come scriveva G. Orwell in 84) «la pace è la guerra, la libertà è la schiavitù», resta cupa e angosciosa quale deve essere. Premiato da un botteghino planetario di 400 milioni di dollari, lo spettacolo è imbastito con efficacia sui contrasti scenografici fra i ghetti dei poveri, il regno del privilegio e la foresta-set che funge da arena. In questo habitat si muove vigile e determinata Jennifer Lawrence, che già in Un gelido inverno si era dimostrata convincente, combattiva eroina senza macchia.


Da FilmTV:

di Chiara Bruno
È difficile restare umani, nel futuro scritto da Suzanne Collins. Il Nordamerica è lo Stato di Panem, diviso in 12 Distretti la cui numerazione cresce proporzionalmente alla penuria di cibo. Sono governati da Capitol City, ipertecnologica città di smeraldo che ne sfrutta lavoro e risorse assicurando benessere alla sua frivola gente. Opporsi è impensabile dopo una rivolta tragicamente fallita: a ciò si deve l’istituzione degli Hunger Games, il reality show che ogni anno coinvolge un ragazzo e una ragazza da ogni Distretto e li getta in un’arena da cui uscirà un solo vincitore con le mani sporche di sangue. ESPANDI +
Quando viene sorteggiata la piccola Prim, la sorella 16enne Katniss si offre volontaria. Le prove cui sarà sottoposta sposteranno il fulcro della sua età incerta, costringendola a scelte più forti delle braccia e del cuore di un’adolescente. La Trilogia che in America è un caso letterario, paragonabile alla Twilight Saga (solo) per incassi e target (quei “giovani adulti” che muovono i fili dell’industria creativa), nella trasposizione mantiene intatta la crudeltà del combattimento ma lascia incompiuti gli altrettanto feroci tumulti dell’animo. L’impianto di concetti complessi sulla macchina semovente del blockbuster è un innesto solo parzialmente riuscito, e forse mai rincorso fino in fondo: il compromesso come scelta vitale, il tritacarne mediatico metaforico e letterale, il romanzo di formazione dell’eroina schiva ma determinata stanno al film come il vestito meticolosamente elaborato per Katniss dallo stilista futuristico Lenny Kravitz: brucia girando su se stesso, ma produce fuoco sintetico, scintilla decorativa e sicura. Un sorriso della «ragazza in fiamme» basta ad accendere la platea, ma quando i riflettori si abbassano e gli sguardi braccano la terra - bruciata, percossa, disumana - di brutale rimangono i movimenti di macchina. Il libro si affidava alla voce di Katniss, arma a doppio taglio che ne vivificava l’impeto combattivo e al contempo ne svelava spasmi e insicurezze, dissidi e ambiguità nella lotta tra realtà e sovrastruttura. Il film si attiene rigidamente alla matrice letteraria per quanto concerne la storyline, ma non trova mai la forza di rompere lo specchio tra schermi: quelli di Capitol City e il nostro. Nonostante l’ottima Jennifer Lawrence, cacciatrice dallo sguardo vitreo al suo secondo gelido inverno, restiamo spettatori di un gioco al massacro che traduce in extremis dinamiche contemporanee. Solo abdicando alla condizione di testimoni saremmo realmente liberi.

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